Collage music. Basta? Mai quanto possa dare un attento ascolto. E nel caso in specie, ne occorre anche ben più di uno. Cacchio, vorremmo cavarcela più alla svelta (sapete da quanto tempo ce l’ho in consegna ‘sto ciddì?), ma questi canadesi ci mettono a durissima prova.
Bisognerebbe in qualche modo anche provare a isolare le – innumerevoli – componenti di tale collage. E si potrebbe, appunto perché tale, più che crossover, è il sound della ptsCO: moderni emuli di Zappa che hanno anche i computer e uno stato dell’arte nelle recording techniques più avanzato dalla loro. Quanto spazio abbiamo? Non moltissimo, direi. ‘Introduction’ evoca gli squillanti jingle dei TG di una volta, oltre a una pletora di effetti sonori cinematografici. La musica, propriamente intesa, attacca con ‘Fashion Flag for a Part-Time Patriot’: easy listening anni 60, Stravinsky, cartoon-music, musica cinese (e ho ancora detto poco…). TV e cinema sono abbondantemente presenti, se non invadenti, nella sonorizzazione del tutto, e questo perché il concept dell’album, come il titolo già suggerisce, si configura come un documentario sulla vita di minuscoli esserini che, alla lente di ingrandimento, assumono le fattezze e le abitudini di normali esseri umani: famigliola a tavola ai pasti, papà che torna dal lavoro, et cetera, et cetera. ‘A Minute in the Future: The Weenie Roast’ è un piccolo collage su un beat hip hop, mentre ‘Bimbo Mambo’ va a pescare la propria essenza nei ritmi caraibici.
Ci siete ancora? Perché la traccia più lunga è l’ultima, vera e propria suite in cui l’estetica trans-gender e concettuale della ptsCO raggiunge il suo culmine. Tre movimenti, altri 48 generi frullati (se ne volete ancora, eccovi surf guitar e musica hawaiiana) tra loro, il tutto sullo sfondo di una narrazione da documentario scientifico. Tutto costruito alla perfezione da Paul Minotto – mente e anima di questa orchestra anche burlona, a giudicare dalla foto con maschere fotomontate –, che sorprende non poco nell’emanciparsi da qualsiasi stereotipo (hey, stiamo parlando di un demo, se oltreoceano questa dizione ha un senso). Ma il tutto, rende come dovrebbe?
Allora, chiaro che un rocker medio un album così lo butta via dopo massimo un minuto. Ok, filtriamo questa percezione. Ma ancora non ci siamo. Lo so, storcere la bocca per un lavoro troppo ben fatto è un po’ come sputare nel piatto in cui si mangia, però nel suo rigore concettuale e nella – esasperata – molteplicità delle fonti sonore, “A Life in a Day of a Microorganism” pecca di una leziosità che condiziona fatalmente la piena fruizione di un’opera – non un semplice disco. La sostanza c’è, per carità, ma provate voi a mettere decine di spezie in una stessa pietanza…
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Autore: Bob Villani