“Space is the place”. Ancora oggi, soprattutto oggi, forse, che la realtà di sonde lanciate ai confini del sistema solare sta rosicchiando qualcosa alla fiction. Una storia che si ripete, da una fantascienza letteraria e cinematografica fino all’evocazione del cosmo attraverso la musica, a volte secondo traiettorie orbitali, ripercorrendo quindi una sorta di clichè, altre volte sguinzagliando le proprie rotte su percorsi poco, o per nulla, battuti. Non è solo questione di nuove combinazioni stilistiche, quindi, ma anche di un immaginario che viene rimodellato, e non necessariamente in funzione dell’attualità.
Questo per dire che, se ne abbiamo abbastanza di free-jazz con vocazione spaziale, space-rock e corrieri cosmici, forse non ci è mai passati per la testa che anche dei funky groove possono essere un’ottima navicella con cui varcare la stratosfera. Un giro con il “convoglio Artanker” come equipaggio può chiarire le idee su quanto si possa andare lontano in questo modo.
Cosmic-funk, quindi, e sempre che mi passiate il termine – che male non suona. Il groove è il motore di questa navicella, alimentato da una sezione ritmica (bassi solidi ma lineari, batteria, percussioni) densa di ottani ma che non apporta sbalzi alla velocità di crociera. Il ritmo si tiene uniforme, a volte breakbeat, quasi occhieggiando ai confini dell’hip hop per ballabilità (e infatti il disco è stato creato appositamente per una performance di danza, ed eseguito dal vivo di sottofondo a questa).
Ciò che non segue caratteristiche di uniformità è la rotta che le apparecchiature di bordo (di cui a tra poco) consentono di tenere. Il sax alto – non free, né fastidiosamente graffiante – spinge in direzione chiaramente jazz, perpetuandone l’evoluzione in senso fusion, anche se su direttrici diverse da quanto proviene da Chicago (il sestetto, dimenticavo, è di New York): se lì possiamo parlare di fusion della modern age, Artanker (il batterista) e soci sbarcano questo carico, di diritto, nella space age. La chitarra si avvale della sezione ritmica per dare forza a reiterazioni che lanciano il Convoy anche su costellazioni post-rock. Le voci si fanno ogni tanto vive, falsettate come, davvero, certo soul-funk d’annata.
Non è ancora il momento di scomodare la produzione 70s di Miles Davis: la faccenda, allora, era ben più complessa e complicata, altrochè. Oltretutto, e proprio in chiusura (sciagurati!!), qualcosa viene buttato alle ortiche (il “cosmic rocker” remix di ‘Alaska’, buono non più che come sottofondo di un DVD mentre scegliamo opzioni). Ma nel frattempo la navicella avrà già preso il largo, troppo lontana per essere ripresa in quattro e quattr’otto da chicchessia. Classe da vendere? Quanta ne volete…
Autore: Bob Villani