Ce ne stiamo qui ad ascoltare il nuovo disco di Marco Parente, e ad immaginare come avrebbe potuto suonare Jeff Buckley, dannazione, se 9 anni fa, invece di annegare trentaduenne nel Wolf River, avesse avuto il tempo di raggiungere una fase di maturità artistica finalmente spuria da ingenuità post grunge, e calata magari nel jazz.
E come suona Marco Parente, ormai al suo sesto disco in carriera? Beh, questo nuovo Neve Ridens [ridens] esce a distanza di 6 mesi dal precedente Neve Ridens [neve], che in autunno Marco aveva portato in tournèe per l’Italia con successo, e ne è disco gemello nonchè prosecuzione, al punto che nel booklet vi troviamo i testi delle canzoni di entrambi i lavori.
Marco è persona molto complessa, contraria a svendersi, ansiosa di ascoltare e comunicare se stesso agli altri; soprattutto ha questa straordinaria scrittura che in Italia gli altri autori possono soltanto invidiargli.
Quando lo incontrammo per strappargli un’intervista dopo un concerto, in Ottobre, lo trovammo schivo ma desideroso di parlare ad un livello sincero, di non essere equivocato riguardo ai testi delle canzoni di [ridens], di non esser preso come riferimento o modello da nessuno, dunque ci parlò dei concetti chiave del disco: “comunicazione”, e soprattutto “appartenenza”: poichè in ‘Amore o Governo’ cantava: “oggi mi chiedo cosa posso fare, per dare un senso allo stato delle cose, e non sentirmi ridicolo a appartenere…”. Ci spiegò di non sentirsi a suo agio nè nel mondo del pop, nè in quello dell’underground.
Ma va detto che dove in [ridens] c’erano in bella evidenza i suddetti temi forti (“comunicazione”, “amore”, “appartenenza”), questo [neve] appare meno omogeneo nel contenuto, ed ogni canzone sembra un’affresco a se stante su uno stato d’animo, per altro senza la ricerca di un contatto con “l’altro” fuori da noi. Prende piede infatti una visione categorica, dolstoijeskiana della vita, in cui le cose sono o tutte bianche o tutte nere (“è così sottile il bilico tra la costruzione e la distruzione da sembrare una cosa sola: un solo odio un solo amore”), e ritorna un intimismo nuovamente misantropico (“oggi non ho il coraggio di ascoltare la neve che cade e tocca terra”), che valutiamo come passo indietro nelle liriche di Marco Parente. [neve] del resto vuol’essere l’esatto contrario di [ridens].
Dal punto di vista musicale, al contrario, questo disco del 2006 risulta coerente col suo predecessore del 2005: 41 minuti prevalentemente acustici arricchiti dai voli pindarici della voce di Marco, intimisti nei toni, docilmente cullanti, che pretendono attenzione per esser compresi a fondo e non risultare tediosi ([neve] è un disco che si apre con 70 secondi di quasi silenzio…), e con due tracce più sostenute intitolate ‘Gente in Costruzione’ e, soprattutto, ‘Neve Ridens’, in duetto vocale con Manuel Agnelli degli Afterhours (“non so se è la neve che è fuori, o il cotone che ho dentro”), che davvero equipara in bellezza il vecchio singolo autunnale inspirato dall’omonimo film di Bergman, ‘Il Posto delle Fragole’.
C’è molto pianoforte in [neve], specie nella seconda metà dell’album, e c’è di nuovo la batteria fatta con le scatole dei tamburi, e ci sono Enrico Gabrielli (clarino) ed Asso Stefàna (chitarra) che fanno un gran lavoro; troviamo inoltre un paio di episodi fortemente jazz (‘Amore Cattivo’, con una coda hard-bop che è la cosa migliore del disco, ed ‘Ascensore Inferno Piano Terra’), ed il colpo di genio dal sapore prog in quella ‘Trilogia del Sorriso Animale’ iniziata su [ridens], che aveva affascinato la critica musicale sulle riviste specializzate e che qui finalmente si conclude, esplorando altri aspetti del sorriso: segnale di complicità o ghigno meschino.
E poi, sempre nella ‘Trilogia’, quel curioso parallelismo tra la neve e la iena…
Dice al riguardo Marco, sul suo sito internet: “Il sorriso è una cosa molto infantile, appartiene all’infanzia. La neve mi piace e mi è sempre piaciuta. Sono cresciuto a Napoli, ma da piccolo andavo in Svezia dai parenti (la madre di Marco è svedese, NDR), e lì di neve ce n’era veramente tanta. Ed era una cosa straordinaria, in grado di farmi cambiare umore: un immenso manto bianco, che ho associato al sorriso. Nel primo “Sorriso”, senza capirlo, ho associato il bianco della neve a quando apri le labbra per sorridere e, dal rosso delle labbra, si spalanca il bianco della dentatura, è un’associazione molto fisica… Il sorriso è quello di una iena perchè questa è la vita, ci sono le domande, l’inquietudine, la tristezza, il dolore e la gioia… Il riso amaro che può avere la iena, o aggressivo, o beffardo. Corrispondono tutti a degli stati d’animo molto forti, quelli del sorriso dell’animale iena: Non è più quello di un bambino, ma di un animale, che non sorride. O che comunque non sa cosa è il sorriso, siamo noi che la chiamiamo “iena ridens” per il modo in cui tiene la bocca. Siamo noi che abbiamo dato a quello spalancarsi l’attributo “ridere” o sorridere, e se lo riconosciamo in altre cose, glielo attribuiamo. Così come anche la neve può provocare questa cosa. Alla fine questa associazione è veramente molto primordiale, e quindi in realtà molto semplice. Non lo è quando siamo noi, con le nostre sovrastrutture e tradizioni, a volerlo applicare, e quindi ci chiediamo che senso abbia dire “Neve Ridens”, ma visto con occhi primordiali è molto semplice, semplicemente associativo”.
Autore: Fausto Turi
www.falsomovimento.it