Delle Azure Ray ricordavo di aver letto una simpatica recensione su una rivista nostrana, qualche tempo fa, presto catalogata nei files “da approfondire”. Erano brave, lessi, neo-folk, country, e godevano anche di un discreto seguito telematico. E piacevoli, pure, il che, nella civiltà dell’immagine, non guasta mai, soprattutto se devi vendere. Sull’onda dell’entusiasmo, assaggiai anche qualcosa in rete: accordi in minore e tinte crepuscolari, tanta chitarra acustica e una spruzzata di spleen. Bene, ma allora non riesco a capire perché, al terzo disco, Orenda e Maria si sbrachino completamente, uscendosene con un lavoro prodotto malissimo e ampiamente al di sotto delle loro capacità.
La title track, che arriva alla fine, sembra scritta a quattro mani con le Corrs, ma è tutta la prima parte del disco a soffrire di indigenza creativa: alla scarsità di idee e di linee melodiche si vuole sopperire con un tripudio di drum machine e di orchestrazioni che sanno di falso lontano un miglio (‘The Devil’s Feet’, ‘New Resolution’). Le cose migliori arrivano nel finale (‘Nothing Like a Song’, These White Lights Will Bend to Make Blue’), dove le due americane recuperano toni e colori che caratterizzavano i primi cd, ma non riescono a togliere al disco una patina di piattezza emotiva e a me una sensazione di talento sprecato. È possibile, per tornare al quesito iniziale, che la Saddle Creek abbia imposto una sterzata pop per tentare di abbandonare gli angusti limiti del mercato indie in favore di quelli, ben più corposi (ma quanto, poi?) dettati dalle FM statunitensi. Ma è altrettanto possibile, a mio modo di vedere, che così facendo si finisca per perdere l’uno e non conquistare l’altro: di Britney, mi sembra, ce ne sono fin troppe.
Autore: Andrea Romito