Si può dire quello che si vuole dei Placebo, ma non che non abbiano inventato un sottogenere. Insieme con Radiohead e Muse sono stati in questo terzo millennio gli alfieri dell’alternative rock, definizione che prima di questi tre giganti nemmeno esisteva nell’ambiente rock.
Sono mainstream, eppure sono alternative: questo forse il grande segreto del loro successo planetario. Alternative, talora addirittura glamour, e comunque sempre molto rock, per quanto riguarda lo stile musicale; mainstream per il pubblico, la fama, i video, la loro provocazione costruita (ricordate Sanremo?), il bisessualismo di Brian, l’omosessualità di Steven. Alternative sì, ma mai autoreferenziali, paranoici e involutivi come i Radiohead. Mainstream sì, ma mai senza cadere nel rischio commerciale come pure è successo ai Muse prima di Drones.
I Placebo quest’anno festeggiano i 20 anni dal primo disco (22 dall’anno in cui la band è nata, dopo il casuale incontro in metro a Londra fra Brian e Steven), e hanno deciso di farlo con un greatest hits, A Place for Us to Dream, un tour mondiale che farà tappa il 15 novembre anche da noi al Forum di Assago, e un EP, Life’s What You Make it, costituito di 4 inediti e 2 pezzi live, e già che ci siamo anche da un nuovo singolo che sta già spopolando, Jesus’ Son, registrato nelle spiagge della Sardegna (e introdotto da frasi in sardo).
L’Ep è il simbolo, e la cronistoria quasi, di quello che sono stati i Placebo in questi 20 anni: LIfe’s what You Make It, la prima cover dei Talk Talk, è il pezzo glamour, divertito, quasi superficiale, dal ritmo elettronico e lobotomico, mentre Jesus’ Son è il pezzo dinamico e solare, di quelli che i Placebo hanno scoperto nel loro DNA piuttosto di recente, alla stregua di Slave to the Wage, Bright Lights e Loud Like Love, e che raramente trovi nei loro dischi in più di un esempio, Autoluminescent è una cover di Rowland Howard, dark, lenta e oscura come molti loro pezzi a cui hanno consegnato la fama (Peeping Tom, Without you I’m Nothing, Protege Moi), Song #6, cover dei Freak Power, è elettrica, triste, riflessiva, malinconica come tanti famosi singoli di successo (Too Many Friends, Twenty Years, A Million Little Pieces).
Poi ci sono due versioni dal vivo di Twenty Years, canzone scritta e diffusa nel 2004 quando di anni ne erano passati 10, e che naturalmente adesso viene lanciata nell’Ep, nel Greatest Hits e nel tour come canzone-simbolo, profetica a suo modo.
In realtà è proprio da Twenty Years che si può provare una lettura dei 20 anni di carriera incredibile, dirompente, devastante e al fulmicotone, dei Placebo, carriera che fino ad ora non ha visto un vero momento negativo o un’inversione di tendenza. Ma se si parte da questo pezzo, si deve partire da ciò che questo pezzo vuole raccontare, che è l’esatto contrario di quello che sembra portare a manifesto: Twenty Years, anche se viene molto bene in questo momento per Brian e Steven farlo credere, non è una canzone sui 20 anni trascorsi di carriera, ma una canzone molto malinconica e incredibilmente riflessiva per una rock band all’apice della carriera su quanto ancora c’è da fare. La frase introduttiva infatti non parla di twenty years gone, ma di twenty years to go: “ci sono ancora venti anni davanti”, dice Brian, “il meglio di quello che posso sperare, perciò goditi la corsa, e lo show medico”.
E poi, la parte che mette i brividi, quella di una band in pieno successo che già scrive “ci sono vent’anni davanti a noi, un’età d’oro, lo so, ma tutto passerà e scomparirà molto presto, dobbiamo concentrarci, noi disegnatori del falso, su quello che va oltre ciò che colpisce l’occhio”.
Ecco, per capire i Placebo, e la loro anima tormentata, queste frasi sono le migliori: chi altro scriverebbe, in pieno apice di successo, che tutto scompare presto e soprattutto che bisogna fare di meglio, concentrarsi su quello che è al di là delle apparenze? Qualunque band penserebbe a ubriacarsi di champagne in volo su un aereo privato tra una tappa e l’altra del tour, e certamente lo hanno fatto anche loro, dato che non sono mai stati lontani da eccessi e dall’averli pubblicizzati (la loro anima glamour), ma i Placebo hanno in più l’anima triste, depressa, capace di testi letteralmente devastanti messi dentro a melodie struggenti, da tagliare il fiato.
Questo mix micidiale, fra testi devastanti per durezza, e per racconto di esperienze autobiografiche di dolore, e melodie struggenti, rappresenta l’essenza dei Placebo, un’essenza sapientemente condita poi con i momenti glamour, i momenti puramente punk-rock, i momenti allegri e ottimisti.
Ma persino nella loro canzone più solare mai scritta, che è Bright Lights, i Placebo non dimenticano il dolore, non lo trascurano, ma al contrario sembrano dire, raggiunta la pace interiore dopo anni di sofferenza e di droga, che bisogna conviverci con la parte buia di noi stessi, e fare la fatica di sopportarla e superarla di volta in volta: “Un cuore che soffre è un cuore che funziona!”. Ed è un messaggio che solo chi è stato depresso può scrivere.
Se vi affacciate per la prima volta a conoscere i Placebo (fra i pochi nel pianeta Terra rimasti!) allora la migliore ricetta è conoscerli attraverso questi pezzi, da ascoltare contemporaneamente a quelli dolorosi (Meds, Broken Promise, Devil in the Details, Without You I’m Nothing, Black Eyed, Passive Aggressive) o quelli malinconici (Special Needs, Blue American, English Summer Rain, I’ll Be Yours, Protege Moi, Happy You’re Gone, King of Medicine, Hold on to Me, Bosco), mentre quelli aggressivi e cattivi (Bitter End, Special K, Hemoglobin, 36 Degrees, Teenage Angst, Nancy Boy, Every you and Every Me, They Don’t Care About Us, Bionic) vi ricorderanno che i Placebo sono pur sempre una rock band dalle origini piuttosto punk, e che non la mandano a dire a nessuno.
Allora, fatto questo, si potranno meglio capire le parole del loro ultimo singolo che festeggia i 20 anni di carriera, cantato in maniche di camicia bianca sulla spiaggia e con gli occhiali da sole, quando Brian dice “e non mi dispiace e mi sento benedetto, e sono qui, pur non avendo raccolto ancora nulla, sono una cavalcata che travolge tutto, e mi sento come il figlio di Gesù”.
Una cavalcata travolgente, in effetti, è quella che hanno fatto in 20 anni, considerando che il loro secondo disco era già un successo mondiale e già andavano in tour con David Bowie che li aveva notati, mentre il disco d’esordio dell’anno prima era già sotto etichetta Virgin. Una cavalcata travolgente che avrebbe potuto travolgere anche loro, viste le storie di droga, visto che su tre componenti ben due volte il batterista lascia (è notizia recente che ha lasciato anche il nuovo Steve, il californiano Forrest). E invece, a giudicare dalla bellezza e dalla profondità dei pezzi degli ultimi dischi, li rende più forti, come solo il dolore sa fare.
Ecco, forse quello che li rende indistruttibili e solari oggi come appaiono nel video di Jesus’Son è proprio questo: l’aver attraversato il dolore, in tutte le sue forme, e averlo saputo cantare e mettere in musica, apertamente e senza contorsioni, come nessuno mai in questi venti anni. La musica come un placebo per andare avanti, appunto. Auguri, Brian e Steven!.
autore: Francesco Postiglione
EP Tracklist
“Life’s What You Make It” (Talk Talk cover)
“Jesus’ Son”
“Twenty Years” (live at Europavox Festival 2015)
“Autoluminescent” (Rowland S. Howard cover)
“Twenty Years” (piano version live at Evening Urgant, Moscow 2016)
“Song # 6″ (Freak Power cover)
ascolta Jesus’Son: