Erano gli anni delle marce per Meredith e del Black Power, delle lotte politiche del Black Panther Party e della repressione furiosa dell’FBI di J. Edgar Hoover. Erano anni in cui James Brown cantava Say it loud, I’m black and I’m proud, anni in cui gli afroamericani rivendicavano una loro identità culturale, stanchi di vedere sul grande schermo eroi dai capelli biondi e dalla faccia slavata, e stufi dell’immagine del nero borghese integrazionista di Sidney Poitier.
In un contesto sociale rivoluzionario come quello dei primi anni settanta, nacque la blaxploitation: un nuovo genere cinematografico creato ad uso e consumo del pubblico afroamericano.
I personaggi della blaxploitation erano i nuovi eroi urbani: ruffiani, spacciatori, prostitute, militanti, tossici, figure che stavano prendendo piede anche grazie alla letteratura di quegli anni (basti pensare ad Iceberg Slim e la sua trilogia del ghetto). Un universo di neri violenti, vendicativi e misogini, che spazzarono via l’iconografia razzista del “bravo negro” remissivo e timoroso.
Non ci fu unanime concordia nell’assegnare alla nascita di questo genere una precisa collocazione storica, ma la maggior parte attribuì la paternità a Melvin Van Peebles con Sweet Sweetback Baadasssss’Song del 1971. Questo film fu la dimostrazione di come, attraverso un piccolo budget, si poteva ricavare un enorme successo al botteghino; perciò Sweetback poté considerarsi – da un punto di vista economico – come l’archetipo del genere blaxploitation. Van Peebles rifiutando le logiche del mercato cinematografico tradizionale, fu in grado di realizzare un film considerato un manifesto di lotta politica ed osannato dallo stesso Huey Newton, leader del Black Panther Party.
Sulla scia del successo di Sweetback la MGM scoprì l’enorme potenziale rappresentato dal pubblico afroamericano, affidando così la regia del suo nuovo film a Gordon Parks, il primo regista nero a dirigere una produzione hollywoodiana. A ricoprire il ruolo da protagonista fu chiamato Richard Roundtree che trasformò il detective Shaft nell’icona black per eccellenza: simbolo di virilità, forza e arguzia.
Who’s the black private dick that’s a sex machine to all the chicks?
Who’s the man that would risk his neck for his brother man?
Who’s the cat that won’t cop out when there’s danger all about? Shaft!
Cantava il compianto Isaac Hayes sulle note del suo celebre Theme from Shaft.
Proprio la musica rappresentò la continuità fra la blaxploitation e la cultura odierna. Le colonne sonore segnarono l’enorme successo dei film degli anni settanta, consacrandoli definitivamente nell’immaginario collettivo mondiale. I personaggi si muovevano su uno sfondo urbano, carico di violenza, dove sparatorie ed inseguimenti erano scanditi dal ritmo soul di Curtis Mayfield, Isaac Hayes, James Brown e Bobby Womack.
Indimenticabili le sequenze di Black Caesar, in cui il boss di Harlem interpretato da Fred “The Hammer” Williamson, camminava per le strade del suo quartiere (un esplicito riferimento al Padrino di Coppola) sulle note di The Boss; oppure la splendida colonna sonora di Superfly composta da Curtis Mayfield, che faceva da sottofondo alle gesta del pusherman Priest. Lo stile, l’atteggiamento ed il piacere dell’eccesso, caratterizzarono soprattutto l’immagine del ruffiano, un’altra figura di spicco nell’iconografia degli anni settanta. Un moderno truffatore urbano (così descritto da Darius James) in grado di fare la vita, raggirando i bianchi ed ostentando la sua ricchezza. Le figure del ruffiano o pimp, furono celebrate in film come The Mack o Willie Dinamite. Ancora oggi ritroviamo nella musica Hip Hop riferimenti al mito del pimp, basti pensare che artisti come Jay Z con Big Pimpin’, o 50 Cent con P.I.M.P. hanno reso omaggio a celebri ruffiani come Bishop Don Juan e Pimpin’ Kenny Ivey, riportando in auge il Famous Players Bal (l’annuale raduno dei ruffiani, nato nel 1974 in seguito al film The Mack).
All’interno di un genere cinematografico fortemente maschilista, diverse attrici riuscirono a ritagliarsi una fetta di popolarità. Le nuove eroine afroamericane, dipinte come amazzoni sexy ed astute, avevano il volto di Tamara Dobson e Pam Grier e le sembianze di Cleopatra Jones e Foxy Brown (1974). Quest’ultima fu celebrata anche nel film di Tarantino Jackie Brown (1997), con l’intramontabile Pam Grier.
Le trame di questo genere di film erano short story realizzate sulla falsa riga di celebri pellicole hollywoodiane, interpretate dalle star nere del momento. Ogni dettaglio secondario era eliminato per mantenere il ritmo serrato e costante, catturando l’attenzione dello spettatore ed alimentando il desiderio di serialità che trasformava singoli prodotti, in prolifici e stucchevoli sequel: Shaft (1971), Shaft’s Big Score! (1972), Shaft in Africa (1973); Slaughter (1972), Slaughter’s Big Rip-Off (1973) con l’ex giocatore di football Jim Brown; Blacula (1972) e Scream, Blacula, Scream (1973) con William Marshall; Superfly (1972), Superfly T.N.T. (1973) con Ron O’Neal e Cleopatra Jones (1973), Cleopatra Jones and the Casino of Gold (1975), con Tamara Dobson, ispirata alla saga dei film su James Bond.
La spettacolarizzazione del mondo criminale e la rappresentazione in chiave folkloristica delle lotte politiche dei neri americani, portò ad aspre critiche da parte di molti leader afroamericani ed in particolare dalla NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), che giudicò questo genere di spettacoli denigranti per la stessa comunità. Tuttavia lo sfruttamento commerciale dell’iconografia black se da una parte consentì all’industria cinematografica di uscire dall’impasse finanziaria degli anni sessanta, dall’altra rappresentò un’importante vetrina per la nascente subcultura nera ed una solida base sulla quale costruire il nuovo cinema afroamericano: più vicino alla realtà quotidiana e più sensibile alle problematiche sociali.
Autore: Roberto Conturso
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