Gli attenti ascoltatori italiani di post-rock, o come vogliamo chiamarlo, avranno avuto modo di conoscere la Ghost Records, da alcuni anni attiva per far conoscere cosa c’è di buono nell’area varesina. Stavolta è il turno degli Hormiga, quartetto esordiente nato intorno a Paco De Vito ed Alan Perini, e nel tempo ampliatosi ad apporti esterni. Al primo ascolto “Shore” è oscuro, a tratti greve, spigoloso. Ma poi sa sciogliersi e divenire affascinante nella sua complessa stratificazione di riverberi, nel suo minimalismo chicagoano. Contraddizioni? No, e ‘Happy Birthday Mr. President’ è lì a confermarlo: due minuti e mezzo a metà dell’album, un basso che srotola poco a poco una melodia languida, una chitarra elettrica ne amplifica gli accenti… e in sottofondo il rumore di una cima che vibra, scossa dalla corrente del mare.
Tutto così semplice, ma di una semplicità, come dire, elaborata. È materia lavorata di fino (3 anni di registrazioni si sentono), dove ogni suono è al suo posto e ogni posto è riempito dal suono giusto. Arpeggi di chitarra e di piano si intersecano a dovere nei pezzi di migliore fattura (‘Pipeline’, ‘First Drop’), lì dove, cioè, alla tessitura acustica si aggiungono atmosfere frutto di elaborazioni o interpolazioni digitali. I paragoni anglofoni, allora, non possono che essere i Califone, i Low, e, a scelta, una delle creature di Jim O’Rourke, ovvero la lentezza accoppiata all’elettricità.
Non è un disco agevole, “Shore”, e, a tratti, risente di una certa stanchezza, tanto concettuale quanto esecutiva, come se alle buone idee – che pure non mancano – avesse fatto difetto la capacità di dosarle e di non strafare, che è componente essenziale in un buon disco. Episodi come ‘Tokyo’ nulla aggiungono ad un progetto di per sè più che buono, e, semmai, contribuiscono ad incrementare un certo gusto per il citazionismo, piuttosto dannoso se applicato ad un’opera prima (‘The Moles Way of Life’, ad esempio, richiama in tutto e per tutto alcune atmosfere altalenanti care ai Giardini di Mirò, senza condividerne la carica esplosiva). Come pure l’uso del cantato (‘The girls leave the circus’, ‘Song for unprepared people’), probabilmente fuori luogo in un lavoro imperniato su una ricerca sonora così approfondita.
L’impressione, insomma, è che gli Hormiga siano scossi da un sincero moto psichedelico ma non sappiano – ancora – tradurlo in forme adulte; che, cioè, “Shore” avrebbe potuto essere un ottimo disco se solo fosse stato depurato da alcune imperfezioni. Come molti dei dischi sporcati dalla sabbia del folk desertico di oggi.
Autore: Andrea Romito