L’intervista con Capossela è stata diversa da qualsiasi altra.
Questa intervista andrebbe vista, vissuta, la lettura è riduttiva. Si perdono i gesti che Vinicio Capossela fa mentre spiega, si perdono le sue pause, i silenzi, le riflessioni sulle parole, i mezzi sorrisi. Capossela racconta, segue un pensiero, poi lo abbandona perchè ne ha trovato un altro secondo lui più interessante, perciò a volte le frasi non terminano, e ho preferito non toccare questo modo di raccontare…
Anche perché questa non è una vera e propria intervista, ma un racconto appunto, che abbraccia tutti gli album di Capossela, la sua idea di musica, i suoi maestri, Matteo Salvatore e i suoi idoli, Celentano, la sua terra e ovviamente “Da Solo”, l’ultimo lavoro dell’artista nato ad Hannover, vissuto in Emilia, ma con origine ben salde nella terra irpina, in quella Valle dell’Ofanto per cui si è speso tanto…
Lo abbiamo incontrato nel suo albergo a Parigi, in occasione del concerto che ha tenuto all’Alhambra, storico locale in cui, come ricorda lo stesso Capossela, ha cantato anche Edith Piaf. Capossela è in giro per l’Europa con il suo show, un vero e proprio spettacolo musico-teatrale, in cui è attorniato di strani personaggi e strani strumenti (Mighty Wurlitzer, theremin, toy piano…). Come sa chi lo segue live, Capossela riserva sempre delle sorprese e il suo Side Show “è un baraccone dove si mettono semplicemente in mostra le cose grottesche, le cose mostruose, le cose…la mucca a cinque zampe, la donna barbuta, e questo è un po’ una metafora di noi, delle nostre mostruosità”; ecco, perfetta sintesi di quello che è il concerto. Sala piena, molte voci italiane, ma non solo, pubblico attaccato al palco e show diviso in due parti. La prima dedicata all’ultimo album, più intima, pianoforte al centro e freaks tutt’attorno. L’aria è sognante, si respira un’atmosfera strana, pacata, si sente molto, anche live, l’influenza americana, incredibilmente vicina ai Calexico, con cui il cantante ha collaborato in questo ultimo album. Atmosfera folk-countreggiante e fantasmi tutt’attorno, aria da saloon infestato e presentazioni rigorosamente in francese (“mi sforzo per tempo di preparare un canovaccio e di fare sentire a proprio agio tanto chi conosce la lingua che chi non la conosce, e poi è veramente molto divertente cercare di tradurre in altre lingue cose come il maiale a due teste, qua invece è le “cochon avec deux tetes”, è molto divertente quando si ha un maiale a due teste da presentare in varie lingue”). La pausa affidata alla magia del Mago Wonder e Jessica Love, con il loro spettacolo di illusionismo e comicità. Ma appena torna in scena Capossela, la musica cambia (si fa per dire ndr) e si balla. “Maraja”, “Canzoni a manovella”, “Cha Cha della Medusa”, “Ballo di San Vito”, una versione calexicana di “Che coss’è l’amor” (“l’unico pezzo che può avere una sua usura è “Che coss’è l’amor”, ma io trovo sempre il modo di farla in una maniera particolare”) e via con alcuni dei successi dei suoi album, fino all’omaggio finale a Modigliani. Una Modì struggente, in solitario e con una sala in rigoroso silenzio, chiude lo show.
Ma forse è arrivata l’ora di lasciare la parola a Capossela:
La favola, la mitologia, strani personaggi riempiono le tue canzoni. Come nascono i tuoi personaggi e da dove nascono le tue storie?
Ah! domanda complessa. Il primo album è nato quando avevo 23-24 anni, quando l’ho registrato e sono soprattutto canzoni di…sognavo di essere un cantante confidenziale, sai quello di cui uno si pensa ‘ma a lui sarà successo’ e io facevo in modo che mi fosse successo. Il primo “All’una e trentacinque circa” era un disco di esperienza molto diretta, quindi canzoni d’amore, di strada, la partenza, la notte, i locali dove si suona, la birra…tutte queste cose…poi mano mano…i primi tre dischi vertono un po’ su questo, anche se la geografia si è sempre un po’ più allargata. “Il ballo di San Vito” nel ‘96, invece, è stato il primo disco in cui ho iniziato a preoccuparmi più da vicino della produzione, quindi con chi fare e tutte queste cose…man mano si conoscono i musicisti adatti e poi la scrittura è molto più… insomma è il fatto mentre succede, come si dice ‘con la mano nel fuoco descrivo cosa è il fuoco’ e quindi è un disco quello che ha attinto completamente dall’esperienza diretta.
È un disco registrato proprio sulle strade d’Italia aperte come ferite, poi i dischi che sono venuti dopo “Canzoni a manovella”, “Ovunque proteggi”, sono dischi in cui alla mia esperienza personale si è invece sovrapposta l’esperienza un po’ più generale dell’uomo. “Canzoni a manovella” è un disco di grande relazione con la storia e la geografia del continente europeo del 900; Bardamù, il pezzo che lo apre, è un pezzo ispirato alla vicenda di Celine, poi c’è la guerra, la seconda guerra, e i treni…storia geografia e scienze dell’Europa del XX sec. “Ovunque proteggi”, invece, ha allargato ulteriormente questo campo perché è un disco che attinge molto al mito al sacro, è così profondamente radicato nel Mediterraneo, come sede proprio del mito e dell’epifania, del sacro, anche se ha delle sue forme di estensione. Ma anche un pezzo come “Moska valza” è interessante proprio visto nella prospettiva della terza Roma, proprio come la intendeva Ivan Groznyj, Ivan il Terribile, ‘due Rome sono cadute, una quarta non sorgerà’.
“Da solo” invece, è un disco che, seppure ha una voce più in prima persona, è di confidenza molto diretta. Quest’esperienza, però, si cala molto nella vicenda della contemporaneità e non ha un’ambientazione soltanto riferita al paese che abito, cioè all’Italia, ma ha delle sue branche che lo portano anche oltreoceano, dove l’America però è più una sorta di fondale scenico – come lo usava Sergio Leone – una specie di luogo mitico in cui ambientare le storie, per arrivare all’ultima canzone che ho scritto che è “La faccia della terra” che, sì, viene dai racconti di Sherwood Anderson, “Racconti dell’Ohio”, ma in realtà m’interessano perché sono molto simili alle vicende che attraversano una piccola comunità come quella in cui sono cresciuto, a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia e quindi, alla fine, si può usare anche il mondo come una accezione più vasta, come pretesto per parlare delle cose che conosci bene, delle cose che sai, e dunque, insomma, rispondendo alla domanda, i territori da cui si parte sono molto diversi, sia quelli personali, sia quelli più vasti, però il tentativo che ho cercato di fare da allora fino ad ora è stato sempre lo stesso, cioè quello di rendere epica una vicenda, sottrarla al presente e metterla in questo tempo, diciamo mitico, quello che i greci chiamavano il tempo del mito.
Ti sei definito immigrato (a “Satyricon” di Luttazzi), quanto questo tuo essere di più luoghi (nato ad Hannover, vissuto a Genova ma con forti radici irpine) ha contribuito alla tua musica. In più hai sempre detto di essere affascinato da Adamo, cantante degli immigrati per antonomasia…
Adamo fa parte, assieme a Celentano, della colonna sonora che ha accompagnato quella generazione straordinaria che non ha preso il transatlantico per andare in America ed è emigrata dall’Italia del sud al nord Europa, negli anni 60; gente come mio padre, per esempio, che da Calitri è andato prima in Svizzera e poi in Germania. Allora i dischi che io ascoltavo quando ero piccolo -perché erano quelli che rimanevano come residuo della sua gran gioventù, e non solo sua ma di tutta quella generazione – erano questi, in cui spiccava l’opera di Salvatore Adamo. De “La notte” ne ho fatta anche una cover, sono pezzi straordinari. Col tempo l’ho anche incontrato Salvatore Adamo, artista sempre in attività, un gran signore e adesso verrà anche al nostro concerto di Brussells. Anche con Adriano Celentano ho avuto la possibilità di fare quello che stiamo facendo noi adesso, però al contrario, perché tre mesi fa è uscito con il suo nuovo disco e per XL abbiamo fatto un’intervista, una chiacchierata.
Naturalmente il fatto di avere, sì, delle radici forti, che però non hanno mai trovato il modo di attecchire…io vengo da una famiglia che si è portata questa zolla dell’origine sempre attaccata ai piedi però in un posto dove quella terra intorno non c’era, quindi ti abitui a portare quello che hai di più radicato sempre dietro senza farne veramente parte, questo è stato il mio modo di vivere la radice e il fatto di appartenere, ma non essere veramente di un posto.
Hai citato Celine. Com’è il tuo rapporto con la Francia?
Beh, letterario, molto letterario, nel senso che ho amato molti scrittori, poeti, particolarmente Celine, ma anche Alfred Jarry, la sua patafisica e tutte queste cose insomma…ho sempre amato, per un periodo particolarmente, durante Canzoni a Manovella, ho amato molto questo genere che esiste in Francia, la patafisica, il grottesco, la sparata grossa, l’amore anche per le invenzioni che non funzionano, per il brevetto, la scienza, i pionieri del volo ad inizio secolo. Altri sono più affezionati ai grandi poeti del secolo prima. La figura a cui sono stato più affezionato dall’inizio, però, è una figura mista, un grande artista di origini italiane però che ha trovato qui la sua casa, e la sua arte, Amedeo Modigliani. A lui è dedicato il secondo disco che si chiama “Modì”, anche perché Modigliani per me ha incarnato soprattutto quell’idea bohemien che ancora, insomma, credo che freghi chiunque si avvicini a questa città venendo dall’Italia o da qualsiasi altro posto del mondo.
E l’approccio col pubblico straniero, invece?
La canzone secondo me non ha problemi di comunicazione. Nel fare uno spettacolo in un posto diverso dall’Italia io mi preoccupo molto di cercare di apprendere gli strumenti che mi servono per lo spettacolo, fare una buona presentazione in tedesco per esempio, anche col foglio in mano… sono lingue fatte per lo spettacolo (presenta in tedesco, ndr), e poi il tedesco è perfetto per fare cabaret, così anche il francese, quindi senza avere la pretesa di arrivare a…i pezzi secondo me si possono tradurre tranquillamente o fornire di traduzioni. Per un periodo abbiamo fatto anche l’esperimento di fare delle traduzioni. Secondo me per l’emozione di un pezzo dal vivo basta il pezzo in se stesso…; quello che conta è stabilire il contatto, è l’entertainment che ha necessità di parlare un po’ quella lingua ed è una cosa molto divertente, qualunque sia questa lingua cerco sempre di dividere la parte dell’intrattenitore che dirige lo spettacolo, a quello che è l’autore delle canzoni, quindi mi sforzo per tempo di preparare un canovaccio e di fare sentire a proprio agio tanto chi conosce la lingua che chi non la conosce, e poi è veramente molto divertente cercare di tradurre in altre lingue cose come il maiale a due teste (lo dice in tedesco, ndr), qua invece è le “cochon avec deux tetes”, e comunque è molto divertente quando si ha un maiale a due teste da presentare in varie lingue.
Già farlo in italiano infatti…Ma se lo spettacolo è al Circo Barnum, ai “Side Show” cosa rimane?
Il side show è sempre una metafora, era quella cosa che stava a fianco del circo. Il circo è materia da artisti, i trapezisti, il clown, gente che ha studiato che si è preparata, artisti proprio, invece il Side Show, il freak show è un baraccone dove si mettono semplicemente in mostra le cose grottesche, le cose mostruose, le cose…la mucca a cinque zampe, la donna barbuta, e questo è un po’ una metafora di noi, delle nostre mostruosità. “Da solo” (mostra il disco, ndr) è un disco che ho voluto fare con la grafica da side show, grazie al bellissimo lavoro di Jacopo Leone che si occupa della grafica, ma è anche il mio compagno di scorribande immaginarie. E lui ha pensato a questa cosa, l’uomo con la faccia deformata dalle storie, the story faced man: cioè le storie della sua immaginazione, quelle che ha dentro, gli affiorano in faccia, lui se ne vorrebbe liberare, ma non ne può fare a meno, gli rimangono attaccate come all’uomo lupo gli rimane attaccata la barba, i peli, e quindi anche se non c’è niente di circense in questo disco, o di Side show, c’è il fatto che fare venire a galla dal profondo tutte le storie più intime ci rende sempre un po’ mostruosi, nel senso dell’attrazione, si mette in mostra qualche cosa, mentre invece, Ovunque Proteggi, aveva delle vere mostruosità in carne e ossa: la Medusa, il Minotauro, e lo spettacolo è un po’ il punto di unione tra queste cose, le attrazioni interiori e quelle esteriori, questo, insomma, è quello che intendo io per Side Show, che poi diventa “Solo Show”, che ha la stessa quantità di lettere ma è un pochino diverso, ed è lo spettacolo che abbiamo fatto a partire dal 31 ottobre e che faremo anche qui.
Questo è il tuo album più intimistico. Cosa cercavi quando lo scrivevi?
Non cercavo niente, trovavo. Inizi ad avere un’età in cui tanti nodi della vita si riannodano, nel senso che si sa da dove si è partiti, poi si è fatti il giro del mondo e li si ritrovano ancora lì da riannodare, non so come dire…Queste sono vicende partite molto tempo prima e che col tempo si vede cosa ne facciamo, come ci comportiamo, le relazioni, il nostro rapporto col mondo, e il titolo “Da solo” fa riferimento più che altro all’individualità come separazione dal resto, che è la premessa del confronto, della relazione quindi più che intimista – per intimismo io intendo un’evidenza dell’io narrante ecco, per usare un termine letterario.
Hai citato Celentano, uno dei tuoi maestri, come un tuo maestro è Matteo Salvatore, sai che per molti sei diventato il loro Matteo Salvatore, una specie di guida.
Beh ma c’è una differenza enorme tra Celentano e Matteo Salvatore. Celentano è un uomo di spettacolo ed è stata una mia icona, lo cito per il fatto che, ad esempio, gli italo germanici, gli italosvizzeri hanno avuto Celentano e Adamo come gli italoamericani hanno avuto Frank Sinatra oppure Tony Bennett, insomma questa generazione qui.
Invece con Matteo Salvatore è proprio diversa la questione, lui è un vero maestro, uno da cui andare a bottega. Intanto devo riconoscere che è così poco conosciuto in Italia che io ho dovuto conoscerlo in Francia, dato che tanti anni fa mi trovai a lavorare qui con un musicista francese, Philippe Eidel, che musicò dei sonetti di Michelangelo e io fui uno di quelli che ne interpretò due o tre, e a casa sua mi ha fatto vedere questa edizione francese del “Lamento dei mendicanti” edito da Chant du monde o Harmonia Mundi (è Harmonia Mundi ndr) e poi solo dopo sono andato anche a Foggia, dove lui viveva. Trovare i dischi di Salvatore è già un po’ complicato, è una cosa a cui veramente bisognerebbe mettere un rimedio, perchè Salvatore è stato a mio parere il più grande cantore dello sfruttamento, della miseria che abbiamo avuto in Italia, è l’ultimo testimone proprio della civiltà contadina vissuta non tanto in termini favolistici, ma proprio in termini di reale sfruttamento. Già una canzone come “Padrone mio ti voglio arricchire” deve essere…C’è un altro grande che ho avuto occasione di conoscere da poco, si chiama Enzo del Re e lui invece gode ancora di buona salute – purtroppo Matteo Salvatore ci ha lasciato nell’estate del 2005. Enzo del Re è di Mola di Bari e ne avevo solo sentito parlare, ma solo di recente ho avuto l’occasione di conoscerlo, l’ho invitato a questo concerto che abbiamo tenuto a Parma per il 25 aprile e questo mi ha permesso di scoprire da vicino un’altra grande voce, colui che ha scritto “Lavorare con lentezza” (si perde un po’ nei suoi pensieri, ndr)… è un personaggio straordinario. Ora, dico, si fa il primo maggio in Italia, che ormai è sempre più una cosa da rock star, da grandi numeri, poi magari gente come Enzo del Re o Matteo Salvatore non sono mai stati chiamati su quel palcoscenico, ed è gente che ha scritto qualcosa che aveva veramente a che fare con gli argomenti che dovrebbero interessare una festa dei lavoratori…
…questo è il motivo per cui non hai voluto fare quest’estate al Formicoso, in una delle tue terre, pochi pezzi dal tuo repertorio e dedicare tutto alle canzoni di quella terra? Per questo attaccamento alla terra, alle tue radici?
Abbiamo fatto questo concerto non certo per celebrare la mia musica, quanto per esprimere una cosa che avesse a che fare con la terra che sta per essere violentata in questo caso, io non sono per niente d’accordo con la politica per decreti che riguarda l’ambiente, l’emergenza dei rifiuti in Campania e particolarmente, in questo caso, sono anche ferito come diretto interessato da una scelta che trovo scellerata, perchè fare una mega discarica in un granaio… perché l’Alta Irpinia è stata terra di emigrazione da sempre, quindi è stata saccheggiata della sua principale risorsa, cioè l’umanità che la vive e ora in conseguenza di questo per il fatto che è uno dei posti con più bassa densità di popolazione, gli si sta riservando anche il trattamento di deturparne il territorio proprio per questa bassa densità, quindi per la scarsa opposizione che si può trovare sul campo per smaltire i rifiuti della metropoli; però questo è particolarmente grave perchè un territorio come quello ha proprio nel fatto che sia rimasto sano e intatto la sua principale risorsa, non certo nei capannoni che hanno costruito dopo i terremoti e hanno abbandonato dopo tre o quattro anni di contributi statali. L’unico assennato criterio per la ricchezza dell’alta Irpinia è il fatto che si possano fare colture di pregio, l’agricoltura, l’energia alternativa e tutte queste cose che nel resto d’Europa trovano… addirittura un paese reazionario come è stato fino ad ora l’America sta dimostrando insomma… ci sono cose ridicole come il Governo che adesso esulta per la trattativa tra la Fiat e la Chrysler e questo va bene, no, quando invece si trattava di fare una buona partnership con AirFrance invece di questa porcheria che han fatto, lì bisognava essere nazionalisti.
Quella zona lì (l’Irpinia ndr), per esempio, è stata largamente finanziata dalla Comunità europea è stato costruito questo enorme parco eolico e poi allo stesso tempo non vengono rispettati i principali dettami dell’Unione Europea, o quello per esempio di smaltire i rifiuti in un certo modo; non basta fare delle buche e sotterrare la roba per risolvere il problema dei rifiuti che una società produce. Noi abbiamo fatto un concerto che voleva essere soltanto – e in questo senso è riuscito – un momento di coscienza anche di chi vive lì, perchè poi alla fine tutti noi siamo bravi a riempirci la bocca di parole però non abitiamo lì, io non abito lì, quindi chi è lì, a parte che è pervaso da un fatalismo ormai secolare, quindi le occasioni come queste sono soltanto occasioni positive nel senso del ritrovarsi, di avere la sensazione di non essere da soli perché per il resto manca ogni tipo di…La cosa che mi ha ferito di più è vedere proprio la completa mancanza di rappresentanza democratica di una posizione come quella espressa da un territorio. I sindaci locali esprimevano una posizione locale…però si fermava lì non c’era qualcuno, neanche a livello provinciale, che portasse avanti questa causa, nonostante ci sia stata una grande manifestazione, non c’era un solo politico, non c’era nessuno. Quindi che alle canzoni spetti il compito di farsi sentire va bene, ma penso che siano altre le sedi. Comunque, tornando al concerto, io ho cercato di fare solo le canzoni che avessero a che fare con la terra… inoltre è da anni che cerco di fare, e prima o poi farò, un disco che si chiama “Canzoni della Cupa”, che sono proprio canzoni che vengono da quella radice, di cui Matteo Salvatore è stato probabilmente il…io lo riconosco come Maestro nel senso proprio del collegamento che c’è tra lui e l’elemento irrazionale che è la terra, la natura, non tanto quella intesa in senso bucolica, ma in quello dell’uomo, delle bestie. Calvino diceva di lui che parla una lingua che dobbiamo ancora scoprire.
Quella zona lì (l’Irpinia ndr), per esempio, è stata largamente finanziata dalla Comunità europea è stato costruito questo enorme parco eolico e poi allo stesso tempo non vengono rispettati i principali dettami dell’Unione Europea, o quello per esempio di smaltire i rifiuti in un certo modo; non basta fare delle buche e sotterrare la roba per risolvere il problema dei rifiuti che una società produce. Noi abbiamo fatto un concerto che voleva essere soltanto – e in questo senso è riuscito – un momento di coscienza anche di chi vive lì, perchè poi alla fine tutti noi siamo bravi a riempirci la bocca di parole però non abitiamo lì, io non abito lì, quindi chi è lì, a parte che è pervaso da un fatalismo ormai secolare, quindi le occasioni come queste sono soltanto occasioni positive nel senso del ritrovarsi, di avere la sensazione di non essere da soli perché per il resto manca ogni tipo di…La cosa che mi ha ferito di più è vedere proprio la completa mancanza di rappresentanza democratica di una posizione come quella espressa da un territorio. I sindaci locali esprimevano una posizione locale…però si fermava lì non c’era qualcuno, neanche a livello provinciale, che portasse avanti questa causa, nonostante ci sia stata una grande manifestazione, non c’era un solo politico, non c’era nessuno. Quindi che alle canzoni spetti il compito di farsi sentire va bene, ma penso che siano altre le sedi. Comunque, tornando al concerto, io ho cercato di fare solo le canzoni che avessero a che fare con la terra… inoltre è da anni che cerco di fare, e prima o poi farò, un disco che si chiama “Canzoni della Cupa”, che sono proprio canzoni che vengono da quella radice, di cui Matteo Salvatore è stato probabilmente il…io lo riconosco come Maestro nel senso proprio del collegamento che c’è tra lui e l’elemento irrazionale che è la terra, la natura, non tanto quella intesa in senso bucolica, ma in quello dell’uomo, delle bestie. Calvino diceva di lui che parla una lingua che dobbiamo ancora scoprire.
Che rapporto hai con le tue canzoni? Ce ne sono alcune (come succede per “La mia banda suona il rock” di Fossati per esempio) che non sopporti più o che hai cancellato dalle scalette?
Io in ogni canzone ho messo da parte qualcosa, è il mio modo personale per rendere la vita trasportabile… è come quelli che hanno un baule gonfiabile, se lo possono portare dietro soffiano e ci trovano una cosa dentro, certamente alcune canzoni si usurano più di altre e a volte può essere un po’ fastidioso essere tirati per il colletto…io cerco sempre di fare spettacoli che hanno a che fare con il posto in cui mi trovo, quindi mi fa piacere che il pubblico si fidi di me, se c’è quel pezzo o quell’altro è perchè c’è un motivo, però non ci sono pezzi…l’unico pezzo che può avere una sua usura è “Che coss’è l’amor”, ma io trovo sempre il modo di farla in una maniera particolare. Nell’ultimo spettacolo la faccio in una gabbia, perchè è un pezzo che ingabbia, nel senso che una volta che l’hai scritto spesso te lo chiedono, allora io lo faccio dentro la gabbia, però facendolo là dentro finalmente mi sono dato una risposta. Che coss’è l’amor? Un ergastolo…
Finito il tour…stai lavorando su qualcosa?
No io non ho questo tipo di lavoro, già mi dispiace chiamare tour…Io faccio degli spettacoli, organizzo degli spettacoli, come si organizza un’opera, un film, qualcosa che ha a che fare con quello che c’è da rappresentare. In questo momento noi abbiamo allestito la rappresentazione del Solo show che trae la sua costola da questo disco, ma anche, naturalmente, dai precedenti, ma che ha una sua scenografia, un mondo… è proprio uno spettacolo! E così lo spettacolo si fa con questi criteri, che si fanno le regole, si porta in giro, in questo momento siamo impegnati a fare alcune puntate anche fuori dall’Italia. Abbiamo portato il Solo Show a Berlino dove c’era una specie di tenda da circo con dei tavolini, ora siamo addirittura all’Alhambra dove addirittura cantava Edith Piaf, poi andremo a Bruxelles in un posto che si chiama Botanique e a Londra in una bella sala che si chiama Queen Elizabeth Hallsì. Quest’estate faremo dei concerti – ma non una vera e propria tournèe – alcuni dei quali con questa band che suona anche ne “La faccia della terra”, i Calexico, a Roma e Torino. Poi il 21 maggio esce questo libro scritto col mio avversario e compagno Vincenzo Costantino che si chiama “In Clandestinità. Mister pall incontra mister Mall” è un libro in cui i capitoli sono messi in forma di round, è un libro a due voci che riguarda sempre il match che si tiene con la vita e in generale con la gioventù nel momento in cui diventa più virulenta, cioè il momento in cui sta per morire.
Autore: Francesco Raiola
www.viniciocapossela.it
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