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Intervista: Port-Royal

di Redazione
16 Dicembre 2013
in Interviste
Tempo di lettura: 6 minuti
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Abbiamo incontrato, anche se solo via email, i Port-Royal da Genova. Alle nostre domande ha risposto un affabile Attilio Bruzzone – già chitarrista, voce e programmatore dei synth del gruppo – e in cambio ci offre il brano “Deca-dance” in free-download, in esclusiva per i lettori di FreakOut.

Il vostro singolo estratto da “Dying In Time”, “Balding Generation (Losing Hair As We Lose Hope)”, non mi sembra piuttosto fiducioso.
Le ragioni per non essere più di tanto “fiduciosi” sono molte, ma vi sono, per fortuna, anche ragioni per continuare a coltivare la speranza… Il nostro primo singolo esprime proprio questa dialettica tra disperazione e speranza, il cui esito appare realisticamente incerto. “Balding Generation (Losing Hair As We Lose Hope)” è la generazione presente (si pensi a “Men’s Health”, “Vanity Fair” et alia) di quelli che assieme ai capelli perdono anche le speranze (per le donne potremmo parlare di cellulite, ecc.), volendo con questo sottolineare metaforicamente la superficialità della nostra epoca dell’iconomania (come la definiva acutamente G. Anders più di cinquant’anni fa), dove l’immagine e l’apparenza contano più del contenuto e dell’essenza (assieme ai capelli si perdono le speranze rimanendo calvi ontologicamente). Ma parimenti nelle ulteriori strofe della canzone (sì, si canta ma la voce è tenuta volutamente molto bassa) si conclude “ottimisticamente” dicendo che siamo ancora capaci di osare amare e di innamorarci nonostante la disperazione (i testi dei pezzi di “Dying In Time” sono stati postati sia sul nostro sito che sul MySpace). Quindi blochianamente e adornianamente viene fuori il nucleo utopico positivo proprio dalla negatività disperante. In definitiva, la canzone fa presagire un possibile cortocircuito esistenziale in cui bisogna credere per sopportare il peso della disperazione.
Per “Dying In Time” avete lavorato per tre anni circa, un periodo medio-lungo. Avete seguito un’unica direzione per lo svolgimento del lavoro oppure si è verificata una sorta di patchwork temporale?
Come sempre quando si intraprende un lavoro di tale portata non si sa né quando né dove né come (né se, aggiungerei!) si finirà. È impossibile pianificare tutto e noi, dal canto nostro, manco ci azzardiamo a provarci. Per “Dying In Time” abbiamo seguito il nostro solito metodo: registrare e poi prendersi tempo (anche molto, a volte) per riflettere e rielaborare il materiale prodotto finché non si raggiunge la forma definitiva. È ovvio che poi in un periodo così lungo compaiano spontaneamente altri fattori non presi in esame all’inizio, ma che si riveleranno fondamentali e rientreranno in futuro nell’approccio generale alla registrazione: così è stato per tutti nostri album. Quindi ogni disco che licenziamo – oltre che della pazienza, della passione, dell’ispirazione, di una certa disciplina di procedimento – è anche figlio della contingenza, della spontaneità e dell’esperienza così accumulata, ed è in stretto legame col precedente (non soltanto in un legame stilistico quanto anche metodologico).
Dai credits si legge che “Dying In Time” è stato scritto, prodotto e masterizzato interamente da voi stessi, siete fautori del “D.I.Y.”, si fa di necessità virtù oppure è semplicemente una scelta liberamente artistica?
Diciamo che entrambi i fattori hanno portato a questa realtà di fatto. Sin dall’inizio abbiamo sempre preferito essere gli unici “controllori” e produttori del nostro suono (così come, ovviamente, autori della scrittura dei pezzi), ciò anche non da ultimo proprio perché non confidiamo più di tanto in eventuali apporti esterni occasionali, che spesso, in passato, si sono rivelati inutili quando non “dannosi”.
I port-royal sono molto apprezzati all’estero, soprattutto in Est Europa dove tra l’altro negli ultimi tempi, vanno molto forte le netlabel che spingono soprattutto la musica elettronica. Secondo voi in quei paesi si sta verificando una sorta di network, un circuito parallelo a quello “occidentale”?
Forse parlare di un vero e proprio circuito parallelo è ancora improprio, visto che comunque l’Occidente rimane ancora l’angolo visuale estetico preferito nell’Europa dell’Est, una sorta di modello. Però sicuramente si sta affinando da quelle parti una sensibilità sempre più differenziata e sottile per la buona musica: prova ne è la presenza di alcuni ottimi artisti che non hanno nulla da invidiare ai celebrati colleghi, appunto, occidentali. Poi comunque, ormai da tempo, parlare di realtà locali appare anacronistico e fuorviante, visto che la globalizzazione dei gusti e della tecnica ha ormai investito più o meno tutto il mondo cancellando sempre più le particolarità locali.
Rispetto alla domanda precedente si nota che anche certi vostri brani vanno a provocare alcune rievocazioni dell’affascinante cultura dell’est.
Certamente, visto che sin dall’inizio noi siamo sempre stati attratti (ben prima che ciò diventasse una sorta di moda retrò alla “Goodbye Lenin!”) da quei luoghi così lontani e così vicini allo stesso tempo. Penso soprattutto alla storia, alla letteratura, e ai costumi di quei posti, passione che coltiviamo sin dagli anni Novanta. Quindi nella musica abbiamo voluto offrire un tributo ai luoghi che tanto amiamo per i più svariati motivi e in cui ci sentiamo a casa. L’“amore” per l’Est non è un fenomeno politico e neppure puramente estetico ma esistenziale, a tutto campo e investe anche la gente che abita là. Amore che per fortuna è ampiamente ricambiato e non a senso unico!
Siete molto legati comunque anche alla cultura tedesca.
Sicuramente, visto che amiamo la filosofia tedesca e io sono dottore di ricerca in questa disciplina. Anche per questo abbiamo dedicato titoli e brani ad alcuni aspetti per noi fondamentali della filosofia tedesca. L’amore per la filosofia e la cultura tedesche sono generali e praticamente incondizionati, ma – in maniera completamente diversa da quanto avviene invece per l’Est Europa, dove l’amore e la passione investono il luogo e la gente come tutto, e cultura e vita sono inscindibili – non si trasferiscono per osmosi a tutto quanto è tedesco, alla Germania in generale e neppure alla musica contemporanea tedesca (la grande musica classica ovviamente rientra nel concetto di cultura tedesca) e ai suoi simboli (vedi la tanto mitizzata Berlino): rimane, infatti, ben localizzato e circoscritto al passato, e riguarda il solo aspetto culturale. Prova ne è che non siamo mai stati attratti dalla Germania “contemporanea”, dalla scena tedesca etc.
Intanto all’estero band come i port-royal sono spinte soprattutto durante il periodo estivo e dei Festival. Qui in Italia non si riescono a creare grossi centri di aggregazione se non qualche fenomeno piuttosto localizzato. La gente si sposta, invece, nei posti più improbabili per seguire le tendenze indie…
Effettivamente abbiamo suonato davvero in pochissimi festival italiani, mentre all’estero abbiamo partecipato ad eventi del calibro del Route Du Rock Festival in Francia (con Mogwai, Franz Ferdinand, Belle & Sebastian, Cat Power, tra gli altri) e in Polonia all’Off Festival, il più importante e grande festival indie di quella nazione. Personalmente non amo più di tanto il festival che con la volontà di accontentare tutti poi finisce per scontentare tutti (d’altronde “il troppo stroppia”): preferisco, invece, l’atmosfera più intima e circoscritta del club. Ora ci apprestiamo a suonare al Trenchtown festival in Serbia, uno dei più importanti eventi indie nella ex Jugoslavia.
Tanti live in giro per la Penisola. Il pubblico ha sempre valutato gli artisti. Al contrario voi come valutate le platee di oggi?
Mi risulta impossibile rispondere a questa domanda così come è formulata, visto che avrei bisogno di un termine di paragone di cui non dispongo: le platee di ieri. Comunque mi sembra in generale che il pubblico presente ai nostri concerti sia di buon livello… Ovviamente il discorso varia comunque da Paese a Paese, così come anche da città a città all’interno della medesima nazione: anche per questo rispondere a tale domanda risulta molto difficile.
Torniamo all’album, questo ibrido di musica elettronica e sonorità post-rock, inoltre ho letto di tutto sulla stampa specialistica che direzioni seguirete dopo tutta quest’esposizione mediatica?
Questa è la domanda fondamentale che noi stessi ci siamo rivolti da quasi un anno e a cui non abbiamo ancora risposto in maniera soddisfacente. Pensiamo che con “Dying In Time” (2009) si sia conclusa la trilogia iniziata con “Flares” (2005) e proseguita con “Afraid To Dance” (2007). Col quarto disco vorremmo esplorare nuovi territori, sperimentare nuove metodologie e magari nuovi generi pur però rimanendo fedeli a quella che è la nostra filosofia di fondo e il nostro mood essenziale. Insomma, un cambio abbastanza radicale, ma sempre entro gli orizzonti tipicamente port-royal. Ma, come dicevo all’inizio, questa è solo una possibilità, che, come tale, rimane puramente teorica. Vediamo cosa succederà quando inizieremo a registrare il nuovo materiale… Risponderemo con i fatti come sempre.
Come vanno le cose a Genova?
Premetto che non siamo inseriti in alcuna scena cittadina (sempre che si possa parlare di scena per quanto riguarda Genova), però per fortuna c’è un gruppo di gente appassionata, riunito intorno all’associazione Disorder Drama, capitanata dall’amico e musicista Matteo Casari, che lavora molto bene: è grazie a loro se Genova non è tagliata fuori dal novero delle città dove il cuore indie pulsa ancora attivamente. Quindi direi che le cose non vanno troppo male.
Sapete che mi avete fatto venire voglia di visitare l’Hermitage?
Bene! Ma non limitarti soltanto l’Hermitage: la Russia tutta, anche e soprattutto quella meno turistica, merita davvero tanto e a volte un bar o una stazione possono essere più sintomatici e preziosi anche di un grande museo come l’Hermitage…Autore: Luigi Ferrara
www.port-royal.it – www.myspace.com/uptheroyals

Prec.

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