In due anni di festival, premiazioni fashion, fidanzamenti glam e quant’altro il duo di Brighton ha trovato pure il tempo di fare un album con l’abilità di farlo passare intenzionalmente per sporco e cattivo, quando in realtà la pistola puntata dei discografici ha lasciato la puzza degli spari di minaccia su tutti i booklet distribuiti col disco.
Fire like this è il secondo lavoro firmato Carter-Ansell, anticipato dal singolo Light Up, che è un po’ il trailer di tutto l’album: ogni traccia delle dieci proposte è un potenziale singolo, e non stupirebbe nessuno se l’ennesima casa automobilistica ne scegliesse una per accompagnare nelle sterzate l’ennesima modella che lancia sul mercato sesso e carrozzeria.
Però qui dobbiamo parlare di musica. E quindi. Di musica si parla.
Dalle influenze garage-grunge importate da una certa scena di Seattle i Blood Red Shoes si lasciano prendere la mano senza mai rischiare di essere veramente alternativi: di noise c’è qualche grido in più, ma la voce, soprattutto quella di Laura-Mary Carter, non rinuncia a ritagliarsi uno spazio sexy chic, come in When we awake. Del resto certe scelte sono quasi obbligate: essere un duo chitarra-batteria, a meno che non comprenda almeno un Jack White nel 50% dei componenti, allora devi fare molto casino, ammiccare parecchio e inventarti qualche riff cattivo ma non troppo, che almeno cinque o sei singoli dallo scatolone li si deve tirar fuori. Senza dubbio più cresciuti dal loro primo album, dimostrano di saper restare in bilico perfetto tra il pop e il grunge, come in Count me out, tra accelerazioni ritmiche alla batteria e improvvisi rallentamenti, come stessero a sottolineare un concetto veramente troppo importante. Heartsink è la traccia destinata al pubblico indie-sintetico dei coretti e dei piedi sbattuti al suolo tra la folla, magistralmente fatta seguire dall’arpeggio iniziale di Follow the lines, più cupo, che lascia sperare una traccia adulta, invece no. Stavamo scherzando. Potrebbe essere il nuovo singolo dei MGMT, con qualche ritocco. One more empty chair torna a sollevare ritmo e qualità delle tracce, che nel mezzo dell’album stavano quasi per creare un effetto soufflé riuscito male, per chiudersi con Colours fade, cantata da Steven Ansell, la sola a toccare il tetto massimo dei sei minuti e che regala all’album una certa atmosfera stile Placebo. E gli riesce così bene, che fa venire voglia di congedare questo disco e salutare a braccia aperte la voce di Brian Molko.
Autore: Olga Campofreda