Una profusione di corpi molli, svuotati della vita, scorrono lungo i corridoi asettici di una spa svizzera, accompagnati dai gesti meccanici di infermiere robotiche, esseri apparentemente non dotati di una qualsivoglia capacità sensoriale: esistenze aliene, come fuori luogo (from outer space) appare il set che ha fatto da scenario alle vicende di Fred e Mick (interpretati dai divini Michael Caine e Harvey Keitel). Sopravvissuti in mezzo a una folta comunità di fumosi zombie, i due protagonisti di Youth, l’ultima opera del premio Oscar Paolo Sorrentino, in gara durante la recente edizione del festival di Cannes, danno vita ad una coppia spumeggiante che si ritrova a risplendere, unica nota positiva, nel vuoto di una sceneggiatura inesistente, sorretta da dialoghi stucchevoli e inutile manierismo. Un packaging già sperimentato dal cinesta partenopeo, perfetto per vincere l’Oscar (con La grande bellezza “il pacco” agli americani era riuscito bene) ma non sufficiente per il palato francese.
E allora eccolo Sorrentino, girare in ambientazioni tipiche della high class americana, tra bagni termali e saune, e dare vita a quello che aveva pensato come ad una sorta di pamphlet sul desiderio che appare, invece, come un trattato sull’ineluttabilità della morte. Vecchia storia quella della liason, contrastata, indissolubile, tra il desiderio e la sua fine. Tra la pulsione di vita, imprescindibilmente governata dall’istinto, e la razionale esistenza della morte.
È solo la grande bellezza, sotto forma di un corpo che sfida ogni legge della natura e della gravità e nella leggerezza dei gesti, degli sguardi e dell’innamoramento, a congelare, per un attimo, la pulsione terminale che imprescindibilmente governa ogni opera del regista, e dare spazio alla rigenerazione, alla creazione, alla metamorfosi.
Ad ispirare il cineasta, durante un febbrile agosto passato a scrivere la sceneggiatura, due fatti. Il primo, di cronaca, riguardava l’assenza di Riccardo Muti ad un incontro a Buckingham Palace con la Regina Elisabetta: non si erano accordati sul repertorio e lui non si presentò. L’altro riguardava il ricordo “di una cena con due uomini anziani che si erano messi a parlare di una ragazza di sessant’anni prima, ognuno voleva sapere se l’altro c’era stato”. Uno di quegli uomini, come lo stesso regista rivelerà a Concita de Gregorio su La Repubblica, è Francesco Rosi, a cui è dedicato il film: “A lui devo il racconto dei due vecchi che s’interrogano su un comune amore di 60 anni prima. L’ho ascoltato discutere un’ora con un coetaneo: ma tu poi alla fine ci sei stato con lei? Nessuno dei due lo ricordava ma della gelosia sì, di quello ancora sapevano ancora benissimo. Del desiderio – di quello – si accendevano ancora”.
Fred Ballinger e Mick Boyle sono due amici. Il primo è un famosissimo direttore d’orchestra; il secondo, un apprezzato regista. Fred ha apparentemente appeso la bacchetta al chiodo, Mick è in Svizzera anche per lavorare al suo nuovo film. Sono due uomini di successo, entrambi con vite consacrate all’arte, alle donne e al piacere. Entrambi con alle spalle una vita familiare povera e insoddisfacente. Fred è in compagnia della figlia –assistente, Mick della sua troupe. Durante i 118 minuti del film i due soprattutto battibeccheranno e penseranno alla bella, amata e desiderata Brenda Morel (interpretata da una strepitosa Jane Fonda) ma mediteranno anche sulle proprie esistenze, si perderanno in goffe disquisizioni filosofiche (“Tu hai detto che le emozioni sono sopravvalutate” dice Michael Caine “ma è una vera stronzata” gli ribatte Harvey Keitel, “le emozioni sono tutto quello che abbiamo“), faranno a pugni con la vita e, ovviamente, con la prostata. Soprattutto Fred, vero protagonista del film, si ritroverà a riconciliarsi con sé stesso, con il proprio passato, con l’impegno di un amore coniugale senza amore e devozione, condannato nella solitudine di una macabra morte cerebrale a Venezia.
Insieme a Caine e Keitel, è un cast stellare a sorreggere un film che tolti i lustrini e la polvere di stelle mostra tutta la propria insulsità. Nel cast, insieme alle bellissime Jane Fonda e Rachel Weisz, l’attore Paul Dano, la cantante Paloma Faith e il musicista Mark Kozelek.
Non manca l’omaggio al Pibe de Oro, interpretato dall’argentino Roly Serrano. Ovviamente il legendario attaccante non ha esitato a ringraziare il regista sul social network Twitter
mettendo in moto una profusione di retweet. Vecchia storia quella della (sacrosanta) passione di Sorrentino per el Pibe: al momento del ritiro dell’Oscar per “La grande bellezza”,
il cineasta aveva platealmente ringraziato Maradona, assieme a Federico Fellini, i Talking Heads e Martin Scorsese, definendoli “fonti di ispirazione”.
E a proposito di ispirazioni, con Youth, appare possibile tracciare il punto di maturazione della “poetica sorrentiniana”. Nel film, possiamo rinvenire aspetti presenti in tutta l’opera del regista
e che pertanto possono essere identificati come temi della sua visione:
1. Un’ineluttabile aura di morte, che accompagna ogni suo film. È la morte il centro dell’indagine di Sorrentino. È presente in ogni sua opera come un’inamovibile cappa.
2. L’amore per Sorrentino non è mai vissuto, consumato, goduto. È piuttosto una pennellata. Una punturina. Non è mai pienamente indagato.
3. L’amicizia è il perno della vita. E costituisce l’unica certezza.
4. Il gusto per il macabro. Dopo l’inguardabile santa de La grande bellezza, il regista ha larsvontrieriamente deciso di spiazzare gli spettatori con un’altra visione oscena della caducità
del corpo e della vita.
Di tutt’altra idea il regista che, nella già citata intervista con De Gregorio, ha affermato: “Ho solo un paio di cose da dire: il sotterraneo sentimento che stare al mondo sia faticoso anche
all’apice della bellezza e i rapporti che si stabiliscono nelle relazioni di potere. Queste due cose racconto. A volte ho paura di averle già dette. Di perdere, con l’esperienza, l’entusiasmo”.
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http://www.indigofilm.it/produzioni/film/61/la-grande-bellezza/
autrice: Michela Aprea