Non ho mai voluto approfondire Hugo Race. Conoscendo la musica e i musicisti di cui si è circondato e con cui ha collaborato in tutta la sua carriera artistica, credevo fosse superfluo, avendo già a disposizione un ricco bagaglio di suggestioni simili, dai Birthday Party ai Bad Seeds, da Cesare Basile a Nikki Sudden. Benchè tutti questi artisti siano molto diversi tra di loro, in qualche modo sono legati da un mood umbratile e da una visione del rock che deve essere ‘raccontato’ e forse credevo che Hugo Race di fronte a personaggi di tale levatura, ‘scomparisse’, apparendo come il fratellino minore un po’ sfigato. Inoltre temevo anche che, vista la direzione intrapresa nelle sue ultime esperienze (il progetto Merola:Matrix, Dark Summer con i Sepiatone o il penultimo album Taoist Priests), la sua musica apparisse ancora più sfuggente, le sue trame quasi inconsistenti a causa di quella componente elettronica e sperimentale un pò sommessa. Mi rendo conto che queste motivazioni, per snobbare un artista così a priori, suonano antipatiche e da presuntuoso, ma così sono andate le cose. Quello che ho ascoltato all’ INIT stasera è stato molto vicino alle mie aspettative, anzi, fortunatamente meglio, ma solo un po’. Le ombre dense e materiche c’erano, ma non erano disegnate da ectoplasmi sintetici. E niente bisbigli notturni, sussurri ansimanti e scenari urbani noir. Rock (blues) piuttosto! Uno show tutto elettrico! Giuseppe dice che del resto c’era da aspettarselo ‘dal vivo’! Non è detto, non la penso così ..ma bene, molto bene. A parte i primi due brani, un po’ sottotono, il concerto decolla con belle canzoni tirate e riff circolari. La musica è sporca, la Gibson di Hugo ha un suono a tratti irritante e stridulo, Chris Hughes alla batteria sembra indugiare ma poi colpisce duro (utilizzando talvolta anche maracas al posto di tradizionali bacchette). Dei blues fratturati, incastrati e distorti mi ipnotizzano (quel basso è un ottimo gregario) ma non esplodono mai, piuttosto collassano su sé stessi. Capisco infine che quello che non mi convince è proprio quello che mi sfugge e quello che mi sfugge fa parte anzi ‘è’ proprio la visione artistica di Hugo Race, la sua forma ma anche la sua sostanza. Visto che anche nel linguaggio del più classico power-trio, nella semplicità della sequenza degli accordi il risultato finale si allontana dal già detto e dal già sentito, Race dà voce a qualcosa d’altro che magari non è così in chiaro. Tutto questo mi fa ricordare il primo Wenders quando diceva “dell’impossibilità di raccontare una storia” e che “erano gli stessi personaggi a costruire la storia, al di là di una trama” e che – aggiungo io – per questo può essere sempre mutevole. Ecco perchè la musica di Hugo Race non riesco ad ‘acchiapparla’. Ed ecco perchè Hugo Race è un grande artista: perchè al di là dei suoni e dei generi e del suo vagabondare musicale ha una coerenza incredibile che è dettata da una sua poetica, da una sua voce interiore che va ben al di là di qualsiasi esercizio di stile e che ne informa tutti i suoi lavori, sempre diversi e sempre uguali, avvolti in un fumo che non permette di delinearne limiti e confini.
Autore: A.Giulio Magliulo
www.helixed.net