Quarta edizione del festival romano dedicato alle sonorità doom, stoner ed heavy psych, che grazie all’impegno di Andrea ‘BJ’ Caminiti (bassista dei Doomraiser) cresce di anno in anno. Importante vetrina sulle bands italiane della frammentata galassia heavy, lo S.H.O.D. offre anche la possibilità di vedere i nomi di punta internazionali dei generi succitati che difficilmente avrebbero spazio su altri palchi italiani al di fuori di questo contesto. A differenza del metal più commerciale, il doom ha sempre conservato una certa credibilità per il suo essere anti trend, quasi conservatore, sebbene l’orecchio attento ne colga mutazioni, sfumature e contaminazioni nella sua monolitica apparenza; esattamente al contrario dello stoner rock, depredato fino a svuotarlo di senso e a trasformarlo in fenomeno modaiolo (ma passata la sbornia da deserto, si vedrà il valore effettivo di chi resta). La “War Map” della prima serata al Sinister Noise è composta da tre gruppi, ed arriviamo sull’ultimo brano dei secondi, i pescaresi Zippo, perdendo così i Godwatt Redemption. “The Elephant March”, dall’album “Ode to Maximum” è il loro cavallo di battaglia ed entrando nella piccola sala si vedono metallari capelloni che si accalcano sotto il palco ondeggiando poderosamente per i potenti anatemi stonerdoom del barbuto singer Davide Straccione, che con sguardo severo e ieratico da giovane Rasputin offre anche il bel microfono vintage alla fossa dei dannati. Poi l’infuocata esibizione dei Doomraiser, gran cerimonieri dello S.H.O.D, davvero scatenati ed intensi, come il rituale esige. I brani, già normalmente lunghi, dal vivo sono ulteriormente stravolti, con richiami vocali ai Celtic Frost meno brutali. Memorabili una “The Age Of Christ“, tiratissima, ed il finale sabbathiano. Il pomeriggio seguente ci vede al rinnovato INIT, e per gli orari perdiamo i romani e kyussiani Black Rainbows, già visti dal vivo in provincia di Treviso e molto bravi, e i bergamaschi Winter of Souls. Conosciamo però gli Ira del Baccano, quartetto romano di heavy psichedelia strumentale davvero efficace, equamente divisi tra liquide divagazioni spaziali hawkwindiane e folli inseguimenti seventies in bolidi targati Atomic Bitchwax. Tocca poi ad una vecchia conoscenza dello S.H.O.D., i Midryasi da Varese, che hanno sostituito il chitarrista Jon Guanera con Paul Paganhate e, chissà se dovuto a questo, anche quel mix di malvagità e acida dilatazione psych in favore di strutture sonore molto più metal. Comunque si parla di una band dalla forte potenza espressiva, con un cantante e bassista, Convulsion, davvero folle, tanto ‘preso’ quanto ironico nelle sue movenze horror memorabili e divertentissime che non inficiano affatto sulla credibilità e sulla qualità del loro psyco-doom. Sempre acclamatissima la loro “Hypnopriest”. La prova termina con l’invasione di palco di tutti i Doomraiser per una superalcoolica doomsession. Ed arrivano i toscani Stoner Kebab con le loro badilate di spezie metalliche e fangoso stoner. Energici, sgraziati e sguaiati come nella miglior attitudine southern, sguazzeranno per tutta la durata della loro esibizione in malsane paludi sludge; l’omaggio iniziale ai Metallica di “For Whom The Bell Tolls” però avrebbero potuto anche risparmiarselo. Ora l’attesa è per uno dei principali act della serata, gli El Thule. Considerati tra i migliori gruppi di genere in Italia, il post-stoner degli El Thule agitato da un anfetaminico piglio punk, si va sempre a schiantare sul passato glorioso del rock più grasso, sudato e tossico che ci sia, e “Black Mamba” ne è un ottimo esempio. Una delle migliori prove del festival senza dubbio. Se fuori intanto è scesa la sera, nella sala è scesa la notte più profonda con i Foreshadowing, che del doom propriamente detto ne abbracciano il lato oscuro, lento e triste: quello ‘gothic’ di Katatonia, My Dying Bride e Paradise Lost. Provenienti da formazioni quali Klimt 1918 e Spiritual Front, in divisa nera, marziali e romantici, i ‘professionali’ Foreshadowing, freschi di contratto con Candlelight, non incontrano purtroppo l’entusiamo del pubblico dello S.H.O.D. per l’umore ‘depressive’ che la loro musica diffonde. Chiudono la loro esibizione addirittura con una cover di Sting, “Russians”, tagliata apposta sulle loro sonorità, ma l’atmosfera generale del festival non li premia come meriterebbero. Il tempo per una boccata d’aria e per due parole scambiate con il chitarrista dei Doomraiser, Molestius, e Convulsion sulle modalità di accordatura delle chitarre nel doom (non sempre preferite quelle troppo basse a dispetto di quanto si possa immaginare) e ci accorgiamo con grande rammarico che abbiam perso i peruviani Ira De Dios, una delle due bands straniere della serata. Per fortuna ci sono ancora i Witchcraft a concludere questo capitolo dello S.H.O.D. Siamo nelle prime file quando i ragazzi svedesi arrivano sul palco. Gioviali e semplici nella loro aria nordica da ragazzi dell’ Erasmus, ma veri freaks nell’animo, inondano la sala di caldi suoni vintage e vibrazioni retrò dell’hard rock del bel tempo che fu. Il tempo, ovviamente, dei Black Sabbath e dei Pentagram, ma anche dei Jethro Tull e degli effluvi folk psychedelici delle saghe nordiche di cui i nostri sono alfieri, in quelle magnifiche terre di mezzo che sono stati la fine dei sessanta e i primissimi settanta. “Chylde of Fire”, “Wooden Cross” e “Queen of the (fuuuuuckin’ aggiunge il cantante Magnus Pelander ) Bees” ci han fatto ballare e pogare, ebbri di una felicità pagana. Al Chapter V, dunque!
Autore: A. Giulio Magliulo
www.myspace.com/stonedhandofdoomfest