È da poco uscito l’ultima fatica dei cagliaritani Dorian Gray, a undici anni di distanza dal precedente lavoro. I Dorian Gray ruotano ancora attorno alla figura carismatica di Davide Catinari, che in questi undici anni, come spiega nell’intervista che segue, si è dedicato all’attività di promoter. Catinari inoltre si è soffermato in maniera molto puntale sulla differenza tra il mondo dell’indie degli anni ’90 e quello dei nostri giorni. Buona lettura.
Perché tanto tempo per far uscire questo nuovo lavoro?
Quest’album è un nuovo start del progetto Dorian Gray, una band che aveva interrotto il suo primo ciclo vitale sul finire degli anni ’90, in un contesto storico abbastanza differente da quello attuale. La prima incarnazione di Dorian Gray è stata muscolare, sferragliante, autolesionista e da allora sono passati 11 anni in cui, tranne una breve parentesi artistica del 2003, mi sono preoccupato soprattutto di far suonare gli altri. In questo periodo di tempo ho continuato a scrivere canzoni aspettando il momento giusto e le persone adatte per poter riprendere a suonare.
In questo ha influenzato la tua attività come promoter?
Bè direi che quella del promoter è un’attività per certi versi totalizzante che richiede, almeno per come la intende il sottoscritto, sia il senso di responsabilità nei confronti dei tuoi interlocutori che la consapevolezza di fare qualcosa che possa essere utile alla comunità, perchè si tratta comunque di un lavoro “sociale”. Sotto questo profilo ritengo che in che in Italia forse si sia meno progettuali e più venditori, ma questo è un approccio comune a molte altre tipologie professionali. Siamo latini e anche un pò levantini, inutile negarlo. Questa premessa è doverosa per spiegare la difficile – ma non impossibile – coesistenza del promoter col musicista. Si tratta comunque di due ruoli difficilmente compatibili in assenza di senso etico.
Ci sono delle difficoltà a ricoprire questo doppio ruolo: promoter ed artista?
Oggi tutti gli artisti sono destinati ad essere promoter di se stessi, l’offerta è considerevolmente più alta della domanda e questo fa sì che ogni giorno si debbano inventare nuove strategie di marketing per vendere qualcosa che non sempre è musica ma sempre di più è immagine, transfert. Anticamente il musicista era un eletto che poteva dedicarsi alla sua arte senza dover pensare alle contingenze, perchè il mecenate lo sollevava dal ruolo di venditore di se stesso, occupandosi in prima persona del suo protetto e della sua sopravvivenza. Oggi flessibilità è il termine di moda in quest’epoca di continua ridefinizione dei conflitti d’interessi, pena il rischio di essere superato dal mercato. Credo che la maggior parte dei musicisti italiani conosca bene questo problema e che ben pochi si siano potuti permettere di indossare esclusivamente le vesti di artista. Il vero problema, ripeto, è riuscire a mantenere un senso etico che ti consenta di non sovrapporre due ruoli che non vanno confusi. Chi li mischia spesso lo fa perchè talvolta mancano le capacità per riuscire in una cosa così come nell’altra. In quel caso credo che non si valga nè come promoter nè come artisti.
Come è nata la collaborazione con Giorgio Canali (Rossofuoco, PGR) e Davide Ferrario?
Con Giovanni ci si conosce da tempo e già all’epoca del singolo Narcosuper, uscito per la Mescal nel 2003, avevamo lavorato su un progetto di band alla quale si era unito anche Andrea Viti, all’epoca bassista degli Afterhours. Quel progetto si chiamava Dvega e non riuscì a sopravvivere forse anche a causa del periodo storico in cui venne alla luce. All’epoca il mondo indie era molto più reazionario e conservatore di come non sia oggi e un progetto come quello era di difficile classificazione. La collaborazione con Giorgio invece è nata in studio, durante un’indimenticabile settimana in cui noi tutti abbiamo potuto apprezzare lo spirito e l’attitudine quasi punk che, unite a una sensibilità musicale non comune e un modus operandi fieramente rock’n’roll, sono la vera forza dell’uomo e dell’artista.
Perché la scelta di un arwork così ambizioso?
Perchè la scelta è quella di dare diversi livelli narrativi, di ricostruire un immaginario, di raccontare qualcosa che si ascolta ma che non si subisce. La musica che esprime scenari come un Moleskine pasticciato con le nostre emozioni, come un block notes della coscienza. Note, parole, immagini sono il tessuto impalpabile che diventa l’abito delle nostre visioni. Ecco perchè si è creata la necessità di lavorare sulle immagini in maniera musicale e narrativa, all’interno di una veste grafica che fosse complanare alla musica. Mi rendo conto che la nostra sia una scelta coraggiosa e equivocabile e che magari qualcuno ci darà dei presuntuosi, ma preferiamo essere onesti con noi stessi e mettere quest’onestà in quello che facciamo. So bene che gran parte della filosofia indie è costruita sul basso profilo ma temo proprio che sia stato l’eccessivo understatement ad aver prodotto effetti indesiderati e nefasti sulla libertà d’espressione. I ghetti non ci sono mai piaciuti così come l’integralismo, mi piace credere che siano declinazioni opposte della libertà di pensiero. Di questa dialettica è carente gran parte della musica italiana, tesa a sviluppare affinità estetiche o ideologiche con l’ascoltatore più che a stimolare il suo senso critico. In Italia piace ciò che ci assomiglia, perchè la necessità di trasferirsi in modelli è più forte del desiderio di libertà, cioè della paura di essere se stessi. La paura provoca il bisogno di essere accettati e questo bisogno produce le tribù, il desiderio di condividere ciò che già conosci con chi conosci e di rifiutare ciò che non ti assomiglia, proprio perchè diverso. In questo senso non cerchiamo la complicità ma il confronto. Per questo motivo credo che I Dorian Gray siano apprezzati da chi si mette davvero in gioco e non da chi pretende certezza.
Come nascono le tue canzoni, così evocative ed introspettive?
Le mie canzoni sono come le porte di una casa immaginaria, costruita abusivamente sopra un baratro ma ancora in attesa di sanatoria. Questa dimensione di provvisorietà è quella che mi stimola maggiormente, perchè per avere la lucidità di comunicare qualcosa in maniera evocativa devi imparare ad ascoltare ordinatamente ciò che hai sparso nella tua mente. Le canzoni nascono in questa ordinata confusione che solo in un secondo momento diventa qualcosa di riconoscibile, almeno per me. Normalmente intervengo ripetutamente sulla musica più che sui testi, perchè la mia perizia strumentale, ancora abbastanza artigianale, ha bisogno di più tempo per prendere forma.
I vostri brani sono musicalmente molto ricercati, quanto avete dedicato agli arrangiamenti?
Una band di sei elementi oggi rischia di diventare elefantiaca se cede alla tentazione di occupare tutti gli spazi disponibili. Gli arrangiamenti sono essenziali per ridare il respiro alla canzone e evitare la bulimia da troppe note. La complessità dei nostri brani è dovuta al nostro bisogno di semplicità. Sembra un paradosso ma oggi è più difficile essere semplici perchè la tendenza, non solo in campo musicale, è quella della sovraespoizione di se stessi, dell’invadenza ad ogni costo. Noi crediamo sia meglio lavorare per sottrazione, esaltare i contrasti, i colori della musica e, non da ultimo, rispettare chi ci ascolta. Il nostro ultimo disco suona complesso proprio perchè è diretto, senza sovrastrutture. Autore: Vittorio Lannutti
www.myspace.com/doriangraymc