Pasticci pop e gusto retrò. Citazioni sparse. Malinconie. Frammenti di letteratura, atmosfere infantili e piccoli resoconti noir naufragati nel mare inquieto dell’adolescenza. In realtà la musica dei Baustelle, giunti al terzo album con “La Malavita”, rappresenta un vero e proprio giallo nel panorama musicale nostrano, con il vestito radiofonico migliore rimasto in soffitta per troppo tempo.
Il concerto, appunto, è l’esempio propizio per raccontare di un delitto emotivo imbastito perfettamente: “La guerra è finita”, tragedia post suicidio in forma d’inutile biglietto, gira da tempo in radio, e l’impressione resta gradevole anche sul palco, benchè ovattata da un impressione rifratta, senza il tiro dell’ascolto in radio.
La potenza di una canzone da dieci, destinata senza timori a restare impressa nelle momentanee pause di una giornata tipo dell’ascoltatore medio, somiglia tanto al modo di fare dei nostri, col delitto consumato proprio come il concerto.
Baustelle arriva, guardando distrattamente quello che accade intorno, e suona quasi senza partecipare, con un gelido e indifferente distacco simile all’impronta del classico serial-killer. Fin dall’attacco, con la memorabile “Arriva lo ye-ye”.
Perché Baustelle è un classico, già da tempo, a mezz’aria tra il cantautorato e il ritmo sintetico, con la voce torbida, profonda di Francesco Bianconi e il contraltare femmineo di Rachele Bastreghi, evocativa musa dalla laringe inconfondibile. L’assassino, si diceva, torna sempre sul luogo del delitto.
Anche dopo “Le vacanze dell’ottantatrè”, posta in coda nel denso momento dei bis, accompagnata dalla “Canzone del riformatorio”. Le parole vanno a memoria, e lo sguardo di Francesco, tranne i pochi saluti di rito, esprime un senso di disorientata estraneità. Piovuto da chissà dove, Baustelle recita drammi e malavita, storie di droghe leggere, amori pesanti e tristi litanie sovversive. “Carezze d’eroina” e “alcolici andati a male”, insieme, a raddolcire la pillola più amara, la “mala-vita”.
A canticchiare ci sono tutti i presenti, ben coordinati, che muovono il piede in modalità automatica. Ma ci penseranno, poi, alle storie? Alle parole?
“Arrivederci” parla di noi, come “Il corvo Joe”, riuscita metafora che indugia sul distacco dell’osservazione. Come la “Canzone del parco”, struggente, con la voce di Rachele, appunto, a dipingere stati di triste consapevolezza. I ragazzi, almeno dal vivo, si faranno: resta il senso d’incompiutezza, di alterità, come se tutto scorresse davanti ad uno schermo che contiene il bello, (poco) e il brutto, senza alcun colore.
Attenti, voi ascoltatori. Baustelle ci guarda.
Autore: Alfonso Tramontano Guerritore
www.baustelle.it