Ritorna Frequenze Disturbate, uno dei festival di musica indipendente più amati della nostra penisola. Un nuovo anno zero, se si può dire, per un evento a grave rischio di sopravvivenza per i soliti motivi che da sempre affliggono questo tipo di manifestazioni nel nostro paese, perlopiù riconducibili a divergenze nelle scelte politico/culturali (quando non economiche) di chi amministra le città sedi di tali eventi. Fatto questo che non solo inficia sulla fattibilità dell’evento stesso, quanto – e ancor più grave – sulla percezione e sul rapporto tra l’evento e i cittadini. Casi emblematici possono essere Umbria Jazz il cui spirito iniziale si è definitivamente eclissato a esclusivo vantaggio del business o all’opposto, un Soundlabs Festival (Roseto degli Abruzzi) in cui, nonostante gli sforzi dell’organizzazione e la validità del cartellone, resta un evento completamente disgiunto e ignorato dal resto della città per una contraddizione delle stesse istituzioni cittadine che da un lato concedono strutture e permessi ma dall’altro creano un’atmosfera di teso provincialismo per nulla invitante e che ci ricorda solo quanto queste cose altrove siano pienamente accettate, volute, condivise. Tornando ad Urbino, i motivi di tanta predilezione per Frequenze Disturbate son sempre stati legati all’elevata caratura degli artisti scelti ma anche alla magica cittadella che non fa solo da contorno ma è parte integrante dell’atmosfera unica che si crea nei giorni del festival. E a tal proposito la cosa più eclatante è proprio la location che ha visto i concerti non più in Fortezza Albornoz ma in Piazza Duca Federico, tecnicamente più comoda e decisamente più centrale rispetto alla Fortezza che sovrasta la vallata marchigiana, ma non altrettanto equivalente in termini emozionali. La prima serata tutta al femminile (anche nell’allestimento del palco adorno di perle di vetro e soffuse luci azzurrine) vede protagoniste My Brightest Diamond, St. Vincent e Cristina Donà. Shara Worden (My Brightest Diamond) è una ragazza dall’estetica lynchiana; rassicurante immagine anni cinquanta con acconciatura a banana e chitarra a tracolla ma inquietante nella degenerazione drammatica di vibrazioni retro-soul in stravolgenti code quasi avanguardistiche e acidità rock. Troppa cognizione delle musiche moderne e delle possibilità offerte dall’averle studiate rendono sfuggenti anche dolci pseudo ballate, ma forse è proprio in questo il grandissimo fascino di My Brightest Diamond, che pur ricorda troppe già blasonate colleghe per nominarle tutte. Indimenticabile il suo entusiasmo quando ha chiamato sul palco St. Vincent per farsi accompagnare in un brano molto noisy. Annie Clark (St. Vincent) è un’ altra ‘bella’ che ‘balla da sola’; anche lei come Shara nel giro di musicisti-amici di Sufjan Stevens, offre uno show più convezionale per linearità e struttura dei brani, ma è egualmente enigmatica nella sua proposta solo apparentemente più semplice e che svela tutta la sua profondità nelle pieghe delle sue canzoni che a volte necessitano di ben due microfoni (uno in chiaro, l’altro filtrante) per esprimere duplici stati d’animo. La bambolina dell’Illinois dichiara la sua profonda contentezza nel suonare ad Urbino (‘..quando me l’han detto, io subito “dove devo firmare?”…) anche quando dopo due accordi dimentica un testo e dandosi una manata sulla fronte sorride e cambia brano. Anche per lei dunque canzoni dolci e acide, cullanti e riflessive, figlie di una sensibilità e di una penna decisamente femminili. Come a modo suo lo è certamente la Donà non più legata a canoni cantautoriali e che travolge con maestria con il suo pop-rock ormai rodato e popolare (vederla sbattersi scalza su “Thriatlon” o prendere in giro la “coppia da spiaggia” da lei stessa invitata sul palco per coreografia di valzer a “Non Sempre Rispondo”). Tutti i successi dai suoi vari lavori son stati snocciolati per la gioia di un pubblico canterino, presentati sempre con vocine da cartoon dietro le quali forse si nasconde un po’, e a chi la vuole forse oggi troppo compiacente e ‘alleggerita’ perchè cita Kinks e Donna Summer, c’è sempre un passato ‘autoriale’ che si affaccia in ‘Nairam’, coda wyattiana. Ma è la seconda serata quella dalle grandi aspettative, e non certo per gli svedesi Radio Dept. che seppur artefici di un ottima new-wave romantica dai forti accenti elettronici (non solo Cure e Depeche Mode ma anche l’eleganza dandy degli Aluminum Group e il modernariato nineties di Stereolab e Sea And the Cake) non son riusciti completamente ad infiammare un pubblico “’30 e over” impaziente, fremente ed elettrizzato per una delle reunion più inaspettate: Massimo Volume (nella foto). L’evento nell’evento insomma. Ci mancavano da anni le storie sussurrate ed urlate di Mimì (Emidio Clementi) e squarciate da chitarre elettriche già post-rock dieci anni prima del post-rock, nate e cresciute quando il mondo musicale intorno era troppo yankee e andava di grunge e di noise. Ci mancavano troppo quegli affreschi scarni e minimali, lividi eppure così tanto ‘italiani’ da un punto di vista letterario, della prosa. I Massimo Volume, mai compiacenti, mai sensazionalistici, asciutti ma mai aridi, son venuti a risciacquarci “orecchie e memoria” di “ciò che era e ciò che è stato”. Infine a chiusura di serata (set acustici a parte di cui diremo in seguito) e di festival, Okkervil River, grande e generosa band di Austin, Texas, sopra le righe ed esuberante come tutti i gruppi rock di quelle parti. Una vera roboante fiesta alticcia per Will Sheff e soci, penalizzata solo dalla sequenza del programma: il coinvolgimento dei nostri sarebbe stato al massimo…livello! Salutiamo quindi chitarre, trombe, fisarmoniche e lap-steel per dirigerci all’Esedra del Teatro per i set acustici. La prima serata con Le Man Avec Les Lunettes, la seconda con Musica Da Cucina. Suggestivi sia il quartetto bresciano con il loro vintage pop acustico pieno di ricordi e citazioni che il folk ambient crepuscolare di Fabio Bonelli (chitarrista dei Milaus). E per quanto riconosciamo a Frequenze Disturbate il merito di aprire delle finestre anche per gruppi minori, non possiamo non ricordare i fasti del passato, quando i set acustici erano con gente del calibro di Thalia Zedek (Come) o Howe Gelb (Giant Sand). L’invito è quindi a ripensare questa dimensione notturna e acustica in una chiave più ambiziosa, con più di un nome da proporre per serata, pena una scarsa affluenza di pubblico, già gravata da una partecipazione difficile per gli spazi troppo ridotti. Ma è un nuovo anno zero, dicevamo; ci si contenta!
Autore: A.Giulio Magliulo
www.frequenzedisturbate.it – www.myspace.com/frequenzedisturbatefestival