Scrivere di personaggi del calibro di Baby Dee non è semplice, soprattutto dopo aver visto una sua esibizione quasi appeso al suo pianoforte. La sfida è nell’evitare di essere volgari nell’indugiare in dettagli lombrosiani che verrebbero naturalmente fuori con malcelata malizia quando si parla di certe figure e che intrigherebbero certamente il lettore, ma impoverirebbero troppo l’essenza dell’artista e della musica di cui qui si vuole parlare, riducendolo iniquamente a mero fenomeno da baraccone. Certe curiosità poi possono sempre essere soddisfatte con facili ricerche di immagini sul web che in tal senso è sempre generoso. Qualche cenno alle collaborazioni e al giro di ‘amicizie’ di Baby Dee è invece necessario per la comprensione del suo ricco quanto tortuoso percorso artistico, a cominciare da Will Oldham che le co-produce l’ultimo album ‘Safe Inside The Day’ su Drag City e le presta il suo (almeno nel nome) giovanissimo trio per questo tour. Poi, naturalmente e per più di una ragione, Antony Hegarty di Antony and the Johnsons ai quali ha prestato la sua arpa, Ben Chasney dei Comets on Fire e Six Organs of Admittance ed infine, forse il più importante per uno sdoganamento su vasta scala, David Tibet dei Current 93, che la ha voluta sul suo ultimo ‘Black Ships Ate The Sky’ per una delle versioni di ‘Idumaea’ presenti e che le ha pubblicato tutti i suoi lavori fino al penultimo, sulla sua label Durtro. Baby Dee entra in scena da sola e si accomoda al suo piano; è una figura alla Mark Twain, o Tim Burton per dirla in termini più moderni, che sembra viversi un altro tempo. Stacca continuamente le mani dall’avorio dei tasti ritirandole continuamente in un gesto che sembra nevrosi per la sua ripetitività, ma è una forma di timida delicatezza, antidoto alla veemenza vulcanica con cui eccederebbe in una violenza di suono che piuttosto preferisce continuare a disegnare nell’aria compiacendo i suoi angeli. La sua voce le imita, impostata a soprano, forgiata tanto sui canti liturgici delle chiese quanto dai sordidi marciapiedi d’America su cui si affacciano. Ne risulta uno straniante melànge vittoriano alla Peter Hammill (aspetto meno marcato sul disco) anche se il rimando più immediato è al suo amico Antony. E se Antony è un putto barocco come la sua musica, dalla quale è facile farsi abbracciare, anche quella di Baby Dee è barocca, così sbuffante di vaudeville anteguerra e gonfia di suggestioni melò. Siparietti buffi e giocosi di disincantata e affettuosa comicità velano i dolori, confondono le memorie ed esorcizzano il tragico che pur affiora ineluttabile. Solo dopo “Three Men”, “Morning Fire” e “Three Women”, austere ballate per piano tipiche del suo corso precedente, estratte da “Made for Love”, entrano il basso, la batteria ed il violoncello e si suona ‘The Early King’, brano in forma di marcetta alla Tom Waits. Poi ‘Flowers on the Tracks’, strumentale che apre in sordina, con gli strumenti pizzicati come un brano qualsiasi dei Dirty Three e che poi si configura in una linea di piano semplice e struggente, malinconica e speranzosa, da alternare per intensità alle lezioni di piano di Michael Nyman. La title-track “Safe Inside The Day’ è vissuta con l’emozione di una epifania, commuove tutti i presenti trattenuti in un silenzio che sfocia nella prima vera ovazione della serata, che Baby Dee schiva tra timidezza e mestiere. Si prosegue su questi toni con “So bad” fino al momento di un altro brano chiave dell’ultimo lavoro, “The Dance of Diminishing Possibilities”, davvero carica di ironia, sbilenca e ubriaca e con un bel lavoro del violoncello che ne sottolinea l’andatura barcollante. Ogni tanto si sentono cinguettii di uccelli nella sala (gli stessi che su cd chiudono “Bad Kidneys”), e un po’ ci è voluto a capire che è Baby Dee che porta al collo questo richiamo e con cui si prende bonariamente gioco di noi. Con la bella “Lilacs” si conclude per finta il concerto, visto che per ben altre due volte Baby Dee è costretta a ritornare e a richiamare sul palco i tre giovani strumentisti come farebbe una madre con i suoi piccoli che non vogliono andare a scuola, prendendoli teneramente in giro con richiamini e nomignoli alquanto fantasiosi. Il finale è affidato al traditional “Calvary”e a “Fresh Out of Candles”, venata di soul blues e ricca di riferimenti a figure bibliche, poi si alza, ringrazia e ci saluta. La ritroveremo dopo cinque minuti a bere da sola al bancone dell’Unwound, scambiando giusto qualche parola con la barista e dopo qualche minuto ancora, fuori, al freddo e all’umido, come tutti noi, ma in t-shirt, a raggiungere i suoi tre rampolli, a chiacchierare e bere.
Autore: A.Giulio Magliulo
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