Sarebbe un limite e soprattutto una mancanza assoluta scrivere di un concerto degli Akron/Family confinando ogni sensazione al solo ambito musicale, lasciando che sia solo un’esecuzione, un assolo o una nota fuori posto a fotografare un live che in realtà è molto altro, anzi, è altro, in ogni accezione conosciuta e immaginabile.
Il gruppo americano – con alla batteria uno special guest d’eccezione come Kid Millions degli Oneida – è sicuramente un’entità da palco, un monolite di granito, distorsioni ed effetti che dà il meglio di se a due metri dal pubblico, trasformando un semplice set in un’esperienza tanto fisica, quanto metafisica, alterando e stravolgendo ogni residuo concetto di esibizione e conferendo alla serata una dimensione da vero e proprio happening, come se d’improvviso fossimo nel 1968, in piena “summer of love”, e i nostri compagni di viaggio fossero i Grateful Dead, Ken Kesey e i suoi famigerati acid test.
E’ questo il bello del gruppo newyorchese, questa sua doppia anima fatta di fisicità, di coinvolgimento corporeo , come se fosse teatro, come se il tutto facesse parte di una performance che non può che trovare la sua rivelazione nella musica, in quella musica che spesso è improvvisazione pura e straniante, ma altrettanto spesso è pura delicatezza folk-blues che nulla ha da invidiare alle vocalità angeliche dei più quotati Fleet Foxes.
Ma questa sera al Lokomotiv, sarà la formazione sperimentale, sarà che ai due barbuti Seth Olinsky e Miles Seaton gira così, di momenti realmente composti e riflessivi ce ne sono ben pochi, anzi, il muro di distorsioni e follia sonora che i tre newyorchesi alzano tra noi e loro è davvero straniante, perché se delle volte restiamo estasiati dalla bellezza di questa psichedelia contemporanea fatta di feedback, rumorismi, tribalismi urbani e stratificazione estrema, altre volte il tutto prende le sembianze di una sola, lunga, infinita elucubrazione sonora, troppo lontana da una qualsiasi filo conduttore, troppo vicina ad una matassa di suoni che sembrano uscire dalla cameretta di un adolescente alle prese con i suoi primi sperimentalismi.
E’ proprio questa la sensazione a dirla tutta, perché eccezion fatta per una stupenda “Don’t be afraid you’re already dead” in apertura di set e una sempre spettacolare “Everyone is guilty”, il resto è un eccessivo e indistinguibile magma sonoro, sorretto da una caratura tecnica sicuramente di ottimo livello, ma inevitabilmente troppo fine a se stessa e che alla lunga (più di due ore di set) oltre alla stanchezza, lascia addosso un senso di incompiutezza e rammarico per quello che poteva essere e non è stato.
Autore: Alfonso Posillipo
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