Terminata (fortunatamente a parere di chi scrive) l’elefantiaca, magniloquente è troppo spesso autoreferenziale produzione dell’epoca d’oro della “fusion”, che ha invaso il mercato discografico tra gli anni settanta e ottanta, il jazz e le sue declinazioni, nel nuovo millennio, si è lentamente riappropriato di una forza emotiva e creativa di alto spessore, anche nelle contaminazioni e nelle “fusioni” di genere.
Le intuizioni post “Bitches Brew”, che avevano dato vita a gruppi e progetti di rilievo, che avevano occupato le prime pagine della stampa specializzata (dai capostipiti Weather Report, Return to Forever, Mahavishnu Orchestra … fino a giungere al jazz rock della scena di Canterbury – Soft Machine su tutti), se avevano trovato una ragione e una collocazione temporale in un momento storico in cui la codificazione di taluni linguaggi espressivi/musicali (con i propri pregi e i propri difetti) era figlia del suo tempo e ontologicamente a esso legata, lo stesso linguaggio, nei decenni successivi, segnava una non sempre riuscita realizzazione artistica diventando spesso stucchevole.
La “frattura” e il ritorno a “ideologie” indipendenti operata sul finire degli anni novanta dall’indie rock, mostratosi sensibile anche al jazz e alla fusion anche quando ancorata a canoni più rock o meglio post-rock (basti citare i Tortoise, i Chicago Underground, gli Isotope 217, i Sea And Cake …), ha dato vita a un rinnovato “sentire” musicale che si è inevitabilmente riverberato anche negli ambienti più vicini al jazz.
E così, si sono (re)impossessati con merito della scena, pubblicando dischi di pregio (con un apertura che va dal jazz puro, al jazz rock, al jazz funk, al nu jazz, all’avant-garde jazz …), artisti quali Marcin Wasilewski, i Fire! Orchestra, gli Irreversible Entanglements, i BadBadNotGood, l’Exploding Star Orchestra, James Brandon Lewis, Moore Mother, Luke Stewart, i Damon Locks Black Monument Ensemble, Angel Bat Dawid, Jaimie Branch, Me’Shell NdegéOcello, Matana Roberts, Colin Stetson, gli Stuff., i The Comet Is Coming, i Natural Information Society, Matthew Halsall, gli Anteloper, Mary Halvorson, Alfa Mist, gli Erza Collective, Makaya McCraven, i Menagerie, Melissa Aldana, Melanie De Biasio, Amaro Freitas … (l’elenco potrebbe essere interminabile), oltre agli stessi (“traghettatori”) Robert Mazurek e Jeff Parker o chi, come Kamasi Washington, ha riscosso successo planetario.
Tra loro, il batterista Yussef Dayes, dopo aver militato nei United Vibrations e collaborato con Yussef Kamaal per “Black Focus” e Tom Misch per “What Kinda Music”, ha dato alle stampe il suo primo lavoro solista (ricco di ospiti) “Black Classical Music” (Brownswood/Nonesuch).
“Black Classical Music” è un ottimo lavoro, nel complesso di spessore, in cui la tecnica e l’espressività restano (quasi sempre/ma non sempre) in equilibrio (va detto comunque che siamo al cospetto di un batterista che è più figlio di Billy Cobham che di Elvin Jones. Non a caso su Wikipedia si legge: “At ten years old, he stayed with his grandparents in Bath to attend a university course by drummer Billy Cobham”); pecca è sicuramente “nell’incontinenza” che ha colpito Dayes: come se non avesse un domani, Dayes ha riversato, in 19 brani, per circa 74 minuti, un suo multiforme universo musicale spesso eccessivamente incentrato sulla batteria (elementi che comunque non minano la validità del tutto). Terminato però l’ascolto, e con il senno di poi, rileggendo il titolo “Black Classical Music” è chiaro l’intento di Dayse di realizzare un “compendio” della musica classica nera.
Apre il disco la splendida eponima “Black Classical Music”, sintesi di tutto quanto si voglia ascoltare in termini di ritmiche, fraseggi, tensioni, pause … la stessa batteria di Dayes è tanto virtuosa quanto funzionale.
“Afro Cubanism” mantiene alta la “tensione” e l’espressività densamente condensata nei suoi meno di tre minuti.
“Raisins Under the Sun” (con Shabaka Hutchings dei The Comet Is Coming), ammorbidisce l’ascolto che diviene più rarefatto ma non meno intenso.
In “Rust” torna Tom Misch (che suona chitarra, basso e tastiere) e la batteria a fraseggiare con la chitarra, in un brano da apprezzare nelle sfumature e che inizia ad aprire la strada verso le fughe stilistiche che caratterizzeranno in parte “Black Classical Music” e che nel space/jazz/fusion di “Turquoise Galaxy” diventano “eliocentriche”.
“The Light” è miscellanea del più rilassato e “svaccato” funky, sognante e (stra)lunato nei virtuosismi ritmici riflessi su di uno catarifrangente; alla voce Bahia Dayes, figlia di Yusseff (“My daughter Bahia Dayes … Your light shines bright” – si legge nelle note di copertina)
La collaborazione con Chronixx in “Pon di Plaza” segna la prima e più profonda digressione in una “ballata” rock-reggae che, seppur godibile, deraglia dalla “solidità” sin a quel momento ascoltata, fuoripista che diviene incomprensibile nella seppur breve “Magnolia Symphony” (eseguita dalla Chineke! Orchestra).
Con i sintetizzatori e il gusto retrò di “Chasing the Drum”, “Black Classical Music” torna a girare su solchi più consoni e “orecchiabili” che, sebbene non esaltino lo scrivente per l’eccessiva “morbidezza”, si mostrano di sicura efficacia, per trovare poi nella “scardinata” coda finale il loro “quid”; formula che si ripete in “Birds of Paradise” e in “Gelato”, dove però inizia ad affiorare la percezione che alcune composizioni siano più sfondo per le ritmiche di Dayes che strutture “complesse” (circostanza che comunque non è necessariamente un “difetto”).
“Marching Band”, con Masego, nel suo formato canzone, scorre con piacevole gusto.
“Crystal Palace Park” è nuovamente intermezzo ponte che conduce a “Presidential”, con l’ipnotico pianoforte di Jahaan Sweet che fa da contro altare alla funky/dance “Jukebox” (nomen omen).
Con “Woman’s Touch”, eccessivamente “borghese”, “Black Classical Music” tocca sicuramente il punto più basso e “discutibile” (resta però un brano orecchiabile e di “gradevole” ascolto “easy”), prima che la bella “Tioga Pass” ne sollevi sorte e dignità.
In chiusura l’ottima “Cowrie Charms” che, con le sue screziature rock, “post”, “pop” (tolta la coda finale), sarebbe stato un graditissimo singolo.
Se Dayes avesse esplorato e sviluppato maggiormente le idee contenute in “Black Classical Music”, “Afro Cubanism”, “Raisins Under the Sun”, “Rust”, “Tioga Pass” e “Cowrie Charms”, pubblicando anche un solo 33 giri da 36 minuti (o giù di lì), avrebbe consegnato alle stampe non un gran bel disco (come ha fatto) ma un disco memorabile e perfetto.
Con Dayes, componenti costanti del “gruppo”, il sax di Venna, le tastiere di Charlie Stacey, il basso di Rocco Palladino (figlio del celebre Giuseppe “Pino” Henry Palladino) e le percussioni di Alexandre Bourt.
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