Bruce Springsteen & The E Street Band
Milano, stadio San Siro, 25/06/2008
Ormai è ufficiale: Bruce Springsteen non è umano. Come spiegare altrimenti che a ormai 60 anni suonati è più in forma che mai, tanto da reggere tre ore di concerto? O che questo concerto di San Siro è stato forse più bello e spettacolare di quello di novembre al Forum di Assago o del 2003 sempre a San Siro? O che l’esecuzione dei brani è più vivace, più densa, più energica di quella degli ultimi concerti dal 2000 in poi?
Interrogate chiunque sia stato a San Siro il 25 giugno e abbia potuto vedere l’istrione Springsteen e nessuno vi darà una risposta diversa. Sin dalle prime battute il boss cerca il pubblico, si lancia in mezzo alla gente più spesso che mai, tende mani, getta l’acqua per rinfrescarli (lui pare non ne abbia bisogno, lui non è umano), bacia le ragazze, fa suonare la chitarra dalle mani del pubblico. E intanto suona, suona da Dio con la sua E-street Band (a proposito, un’altra rivelazione: E sta per “eterna”) regalando alcune delle migliori esecuzioni degli ultimi anni.
Tutta la scaletta si muove fra rarità assolute (Summertime blues, None but the Brave, Candy’s room, una emozionante I’m on fire praticamente dimenticata negli ultimi tour, e ancora Darlington County e Bobbie Jean) e i “cavalli di battaglia” come Badlands, Born to run, Darkness on the edge of Town, Out in the Streets, Rosalita, con tanto dell’intramontabile Dancing in the Dark nel finale. Fra questi due momenti, il Boss ha tempo voglia ed energia da vendere per inserire qui e là le canzoni del nuovo album (Radio nowhere, Girls in their summer clothes, ma soprattutto le bellissime Last to Die e Long Walk Home, sconvolgenti per tensione musicale, emozionanti, infinite per durata e per sensazioni trasmesse).
Ma c’è anche spazio per chicche come Spirit in the Night e Racing in the Streets, lunghissima, bellissima, sorretta da un ispirato Roy Bittan alle tastiere. E poi ancora, su tutte, una Because the Night che vede un assolo-balletto di Nils Lofgren che mostra di non voler essere l’eterno secondo di Little Steven, ma di avere personalità e senso del palco da vendere.
A questi mini-spettacoli nello spettacolo il pubblico del Boss è abituato: il duetto di chitarre fra Springsteen e Little Steven su Prove it All Night, appena all’inizio ne è un altro esempio; o il Boss che finge di svenire per il caldo mentre è in forma più che mai (sveniranno varie persone in tribuna, ma lui no, lui non è umano)o ancora l’inizio acustico di Hungry Heart interamente cantato dal pubblico, o l’inedita scelta di presentare canzoni a richiesta, la passeggiata fra il pubblico in Mary’s Place, o il coro dello stadio intero su The Rising, o lo show del batterista su She’s the one.
Il punto è che il concerto meriterebbe per ogni canzone un libro intero, e ne sono state suonate 29, tutte oltre i 6 minuti. Perciò, meglio raccontare direttamente il finale: come al solito, il Boss qui sembra arrivare ogni volta a suonare l’ultima canzone non della serata ma della sua vita, e poi al ritmo di One Two Three, va avanti, va ancora avanti con un altro pezzo. Dopo un medley di traditional rock, dopo Born to Run, Rosalita, Bobbie Jean (una sequenza che da sola ucciderebbe qualunque altro gruppo suonata con l’intensità con cui la suona la E-street Band), Dancing in the Dark per il coinvolgimento e l’emozione generale sembrerebbe l’ultima davvero. E invece ce n’è ancora per tirare fuori American Land, che dura 10 minuti, e qui il Boss chiede ai suoi di raggiungerlo sulla pedana piazzata in mezzo al pubblico, e in un attimo sono tutti là a stringere la mano ai fortunati mentre parte il coro finale. Sembrerebbe finita, davvero finita. E invece il Boss chiede alla band di fare ancora un altro pezzo: è la cover di Twist and Shout, e allora non c’è bisogno di raccontare cosa succede nello stadio a questo punto.
Diciamo solo che alla fine lui è ancora lì, voglioso di suonare, di abbracciare il pubblico, di stare in mezzo alla gente. E la gente avrà ancora voglia di vederlo suonare fra 5, 10, 20 anni. Già, perché se non lo avete ancora capito, ormai è ufficiale: la musica ha reso Bruce Springsteen immortale.
Autore: Francesco Postiglione
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