Beatles, capitolo 2381. Dalle semplici influenze alle cover band, passando per episodi mal riusciti di clonazione, i Fab Four sono ancora storia di questi giorni. Nel bene e nel male, appunto.
Se i Beatles fossero un mestiere a cui ispirare un gioco da tavolo, “Good Sixtie Pops” sarebbe perfetto come “Il Piccolo Beatles”. Il che potrebbe anche andar bene qualora pensassimo a qualceh – perversamente e sottilmente intelligente – gioco di “smontaggio” e successiva ricomposizione creativa delle componenti prime del sound (magari nei suoi episodi meno smacccatamente pop) di John/Paul/George/Ringo. Ipotesi che, come forse avrete intuito, sa tanto di remota – diciamo pure vana – speranza di trarre godimento da questo nuovo disco di Claude Cambed (italianissimo veterano del “surrogazionismo provinciale” di grandi nomi del pop-rock anglo-americano). I Beatles, bontà/pace all’anima (per chi non c’è più) loro, aleggiano come un incubo da cui risvegliarsi al più presto. Apri gli occhi ma l’incubo c’è ancora, anche se sotto altre spoglie.
Claude e i suoi Headlines non si preoccupano minimamente di quanto possa crescere il loro “scoperto” sul conto con i 4 di Liverpool, debito sul quale finiscono per gravare pure gli interessi di un cantato in inglese che riduce i 20 episodi dell’album in questione ad altrettanti gettoni di karaoke da martedì dopolavoristico. Se non è una pantomima ben riuscita, la faccenda si attesta sulla sfaccitaggine più spinta (manca anche la scusante di una tenera età). Riconosco il dovuto a ‘Supertronic’ e ‘Sweet Face’ – guarda caso tra le meno beatlesiane di questo repertorio – nonostante tutto. Per il resto, cover art e chiusura fuori scaletta con vagiti di poppante incluse, i timpani preferiscono aspettare il rigor mortis. Avanti. Beatles, capitolo 2382…
Autore: Roberto Villani