Superjazz o Supersound? Ci siamo persi qualche passaggio dell’etichetta norvegese che ha lanciato, su tutti, i Jaga Jazzist? Forse sì, o forse – i più attenti – no. Posto che Mats Gustafsson – svedese – se la fa oltre confine ultimamente (si ricordi “Hidros 3 – to Patti Smith”, in combutta anche con i Sonic Youth), agli uffici di Bergen hanno pensato di aprire una sezione distinta da ciò che accade sul versante principale, destinato quindi a focalizzarsi su produzioni electro-ambient d’avanguardia.
E d’avanguardia, ovviamente, è destinata a cibarsi anche la “divisione jazz”. Lo dimostra in pieno “Garage”, che non è un termine buttato lì tanto per fare cool, ma una perigliosa invasione di campo da parte di tre indomiti del verbo free – Gustafsson, appunto, insieme ai norvegesi Ingebrigt Flaten al basso e Paal Nilssen-Love alla batteria – nei territori più accidentati del rock: non quell’hardcore cui ci eravamo quasi addomesticati con Zu e ormai affollata compagnia, ma quel garage e quel punk – vecchi e nuovi – per i quali mai si era osato tanto. Ed è ancor maggiore lo spiazzamento al pensiero che tale commistione si concretizza – salvo un paio di brani originali – attraverso lo strumento della cover: Yeah Yeah Yeahs, White Stripes, addirittura ‘Have Love Will Travel’, classico di Richard Berry come ripreso dai Sonics (cover della cover, quindi). Solo un campione di quelli che potevano essere i “bersagli”, ma viene comunque da dire: nessuno escluso.
Lasciamo perdere tanto un’incondizionato consenso di ciò che può esser definito avanguardia, quanto un rigido atteggiamento che bolli come “sacrilegio” qualsiasi “confusione compartimentale”. Il free jazz è materia rischiosa, e lo diventa ancor più in un caso del genere, in cui i brani vengono completamente sfigurati (senza “tra-“, si badi bene), facendo sì che l’ascolto sia quasi esclusivamente graffiato dal sax di Gustafsson che barrisce come un elefante sotto tortura. Forse è apparenza che inganna, ma è già indicativo dell’effetto principale.
La questione è semplice: il free per molti non ha senso. Un senso che siamo riusciti a scorgere quando i cataclismi sax+batteria sono stati un modo per non prendersi troppo sul serio e “sfottere” chi nel jazz – e sono tanti – ha invece questo approccio, e quando è stato utilizzato come “ingrediente” insieme ad altri (hardcore, psichedelia), laddove The Thing, a conti fatti, non ha nulla di garage-punk (se non un paio di riff, all’inizio di ‘Art Star’ e della citata ri-cover). Il free-jazz è come i chiodi di garofano: insaporiscono parecchio il brodo, ma non li si può mangiare a cucchiaiate. Se questo è il modo di svecchiare il jazz, non ci siamo. E visto che, per sua natura, un tale sound sa di dover affrontare 8 stroncature su 10 recensioni, confluire nella maggioranza, per una volta, non pare atto delittuoso.
Autore: Bob Villani