Diciotto anni non sono pochi. E come non accade per le persone, quest’anno il Meeting, il festival che segna l’inizio della stagione estiva dei concerti al sud-Italia, è maturato a tutti gli effetti. Quattro giorni di musica, decine e decine di band, tre headliner su quattro di eccellente livello, un gruppo di artisti (dal nome di mediaintegrati, categoricamente senza maiuscola!) che ha supportato la manifestazione con azioni di comunicazione trasversali, dj-set all night long, area camping convenzionata, uno Jam Camp che ha permesso a molti altri gruppi emergenti di esibirsi… senza considerare la meravigliosa location, letteralmente a due passi dal mare. Un’affluenza da festival internazionale, come effettivamente è stato, vista la presenza degli incredibili Gogol Bordello ed un pubblico mediamente educato, e non è cosa da poco.
Tema di quest’anno è stata l’origine, intesa in tutte le sue sfaccettature. In più occasioni, infatti, questo concetto è risalito a galla tra gli interventi sul palco del patron della manifestazione, Don Gianni Citro, le esibizioni di danza contemporanea organizzate ad hoc, le opere in mostra al Cantiere Visivo e nelle tre azioni organizzate lungo tutta la durata della manifestazione da mediaintegrati. Una lettura della ricerca dell’origine, per il gruppo di artisti, risiede nell’equilibrio e nella relazione tra i quattro elementi: Fuoco, Aria, Acqua, Terra. Identificando ogni giornata della manifestazione, ed il suo headliner, con uno dei quattro elementi, (Rocco Hunt con il fuoco, Le Luci della Centrale Elettrica con l’aria, i Gogol Bordello con l’acqua e Franco Battiato con la terra), hanno dato vita ad una serie di visual in parte interattivi, ad una campagna fotografica veicolata sul canale social del Meeting del Mare e ad un give-away giornaliero attraverso il lancio di migliaia di palloncini (alcuni contenenti dei premi) sulla folla e alla produzione di micro video a tema, tutti visibili sul loro canale YouTube.
Si inizia il 30 maggio, alle 17:30 in punto. La giornata sarà dedicata in gran parte a band hip-hop, visto l’headliner Rocco Hunt (artisticamente il più debole tra i big). Ottimo, e inaspettato, start con Leo IN e Jay P, due giovanissimi rappers ancora abbastanza acerbi ma che in un paio di pezzi riescono a far presagire qualcosa di molto positivo per il prossimo futuro. Tengono il palco meglio di molti altri colleghi con più esperienza alle spalle e la loro esibizione sarà una delle poche degne di nota della giornata. Varemente un bell’inizio. Si prosegue con i vincitori dello Jam Camp, i Jack Moody Quartet, che propongono un cantautorato/folk con belle ritmiche impreziosite da un ukulele che rende la loro esibizione un po’ più interessante, ma che non riescono a far mantenere un livello d’attenzione tale da giustificare le liriche piuttosto standard. Ancora più in basso con Simone Tortora Quartet. Pop-rock moscetto che tenta di resuscitare se stesso con smorzati assoli di lead guitar. Appena godibile la linea delle percussioni, ma per il resto le stecche del frontman parlano da sole. La banalità dei testi e l’impressione che i quattro stiano suonando pezzi diversi, fanno da perfetto contrappunto allo sforzato tecnicismo del cambio tempo alla fine del terzo brano. Per altro mal riuscito. Il rapper Romans sale sul palco presentandosi con beats davvero molto interessanti. Non è lo stesso discorso, però, per la voce: le liriche sono stucchevoli ed autocelebrative, per altro senza motivo, visto che la capacità tecnica ed il flow sono quasi inesistenti. Ci pensa il Complesso d’Inferiorità a riportare la proposta ad un livello adeguato. Alternative rock con sonorità d’oltremanica però con testi in italiano: si presentano più che bene anche se non brillano troppo per varietà di suoni e dinamica. Ricordano vagamente i tempi d’oro dei Franz Ferdinand e lasciano una buona impressione. Poco interessanti sin da subito i Nostromo e gli Alti e Bassi. Tengono abbastanza bene il palco, ma nulla più, e l’idea di proporre hip hop con basi hard rock è meno rivoluzionaria di quanto la band tenta di far credere al pubblico. Di nuovo sul palco, bissano la brutta esibizione dello scorso anno, i Nocivielementi. Come nella scorsa edizione, portano sullo stage un hip hop degno delle nuove generazioni cresciute a merendine chimiche e Club Dogo. Passano fortunatamente inosservati, lasciando solo la vaga sensazione di aver perso un quarto d’ora della propria vita. Discorso completamente diverso per La Maschera. La band si dimostra subito compatta e con un’impostazione da gruppo rodato, proponendo un folk rock che, seppur pecchi in parte di ricerca, risulta immediatamente divertente. Buona tenuta del palco ed ottima risposta del pubblico che, seppur scarso visto l’orario, inizia timidamente a ballare. Fino a questo punto, indubbiamente tra i migliori del primo giorno.
Tocca a Jay Nick, ancora rap poco interessante. In barba a Dj Kool Herc e tutti i suoi discendenti, sin da subito sbobina rime scontate senza niente da dire. Un martello continuo ma spuntato, senza alcun tipo di accezione positiva. Entra sul palco un suo collega, tale MK, ma la situazione non migliora affatto. Prima band, dopo La Maschera, ad un livello professionale, sono i Freak Opera. Il loro rock cantautorale si sposa bene con l’orario e con la loro presenza sul palco: ottima preparazione tecnica e molta anima nella loro proposta, li rende una band di nicchia, più per il genere che per la bravura. Resta davvero la voglia di vederli di nuovo sul palco. Di nuovo al Meeting i Milizia Postatomica che, come lo scorso anno, calcano il palco senza troppo da dire. Una esibizione che verrà dimenticata come molte altre. Diversa invece quella di Nes, supportata da belle basi e qualche bella trovata. Non è che ci sia molto di nuovo nella proposta di questo rapper, ma comunque riesce a lasciare il segno e a risultare divertente. Il rock garage degli Sweet Jane & Claire non subisce alcuno smorzamento nonostante i problemi tecnici alla voce del frontman. L’esibizione della band, ricca di grinta, si risolve in un bello spettacolo di una ventina di minuti. Anche i Grow Edge, con il loro punkrock melodico, colpiscono nel segno, con una manciata di brani molto divertenti. Portano alla memoria i bei tempi dei Moravagine e Peter Punk, con la rilassatezza dei Vallanzaska. Tecnicamente molto puliti e con una buona presenza scenica i La Rua, anche se l’assenza di qualcosa ancora d’indefinito, non li rende all’altezza di altre band che hanno calcato, e calcheranno, lo stage del Meeting. Patto MC è il sedicesimo ed ultimo emergente della giornata, contraddistinto da un buon flow e beat piuttoso comuni, ma piacevoli.Tocca di nuovo a degli ospiti quasi fissi della manifestazione, i Paranza Vibes. Il loro reggae/raggaemuffin è ciò che ci vuole per mantenere alta l’attenzione e per non far sentire oltremodo la stanchezza. La loro esibizione è, come sempre, degna di nota, riuscendo così a far ballare i presenti con una semplicità fuori dal comune. Salgono sul palco i veri headliner della serata: i Sangue Mostro. Il loro flow è incredibile e sembra di assistere ad una vera battaglia. Incredibilmente profondi, un pezzo di storia della cultura hip hop. Segnano una delle migliori esibizioni dell’intero meeting, con un’umiltà ed una passione che dovrebbe fungere da faro illuminante per quanti provano ad intraprendere questa strada. Un colpo al cuore vederli abbandonare il palco per far spazio a Rocco Hunt.
Perfetto per Sanremo, incredibilmente fuori luogo per la musica. Un pubblico di adolescenti con tanto di sciarpette con la faccia di Rocco, accolgono l’ingresso sul palco della nuova star. Improvvisamente, per uno scambio di energie cosmiche, tutto ciò che di buono c’è stato prima dell’improvvisa ascesa al ruolo di paladino del rap del sud Italia, si smembra in un milione di frammenti e sembra di assistere al misero teatrino del ragazzo sfortunato che ha vinto alla lotteria. Ma non per fortuna, bensì per merito. Uno status fornito da Sanremo, per altro: un contesto quanto più all’antitesi possibile della vera musica, un mostro a due teste (pubblico assonnato e major discografiche) capace di fagocitare tutte le speranze dei giovani musicisti. Dopo un’oretta di rime buoniste e di giorni abbastanza buoni, le luci si spengono e termina il primo giorno.
Si ricomincia alle 18:00, sotto una coltre di nuvole che non fa presagire il meglio. Iniziano i Black Rain con un classic rock poco incisivo. Forse è l’orario o forse è il clima, ma la loro esibizione è grigetta come le nuvole che sovrastano la collina alle spalle del palco. Molto, molto bravi i Baluar & Folk Project che, nonostante la pioggia, riescono a non far calare l’attenzione. Il loro show risulta più forte dei primi tuoni in lontananza, tant’è che il pubblico non si smuove dal sotto palco e resta attento. Un’ottima impressione, dunque, che si tramuta in un bel quarto d’ora di musica, seppur bagnata. Bella grinta con il punk-rock di timbro californiano dei 15MOS, tecnicamente non eccelsi ma di impatto e fuori dagli standard. Ottime vibrazioni e eccellente tenuta di palco, sarebbe stato bello poter assistere ad una performance più corposa. Completamente all’opposto i Fuori Forma. Un nome che dovrebbe essere ironico ma che, in realtà, descrive con perizia la situazione. Del becero pop elettronico senza nulla da dire che annoia dopo pochi secondi. Quindici minuti che sarebbe stato bello evitare. L’altalena continua con i Bidons, un’altra bella sorpresa di questa edizione. Il cantante sale sul palco con una maschera di gallo, prontamente gettata in qualche buco spazio-temporale creatosi sul palco, dopo neanche un minuto. Non resta fermo un istante, attraversando senza remore lo spazio creato tra lo stage ed il pubblico, scendendo a cantare insieme a quest’ultimo. Un’energia strabiliante supportata da una band compatta e con un sound ben definito. Molto carino anche il reggae/roots dei Basiliski Roots, che spazia verso tempi raddoppiati quasi da ska e voci sia in italiano che in dialetto napoletano. Rendono il pomeriggio più divertente, nonostante l’andirivieni di grossi nuvoloni neri che sembrano smorzare leggermente l’entusiasmo dei presenti. Il punk rock degli Effetti Collaterali non fa migliorare la situazione e, probabilmente anch’esso colpito dalla noia, il grosso ledwall alle spalle dei musicisti si spegne. Scherzi a parte, inizia a piovere. Il garage rock degli Andes Empire scivola via senza colpo ferire, assieme agli sporadici ma ben piazzati grossi goccioloni che iniziano a cadere dal cielo.
Tocca ai The Big Fever: bella linea ritmica ed una voce molto interessante, ma senza una personalità che possa farli effettivamente emergere dalla massa. Grossi problemi tecnici per i Radiocroma costretti ad abbandonare il palco. Recupereranno l’esibizione il terzo giorno. Si continua quindi con gli Ephimera. Per quanto il loro sound risulti potente, nel complesso qualcosa non funziona per qualche motivo. La band ce la mette davvero tutta, anima e cuore sino alla fine, ma il risultato è sotto la media ed è un vero peccato. E’ però facile immaginare un netto miglioramento nei prossimi tempi. Davvero bravi, invece, i Vena: un sound roccioso e molto vario, seppur di difficile comprensione, contraddistingue questa band che, nonostante la loro rigidità sul palco (probabilmente dovuta più alla contingenza che alla naturale propensione dei suoi componenti) si mettono in luce con una voce graffiante e quanto mai azzeccata per il genere proposto e per una impostazione che li pone una spanna più in alto alla maggior parte delle altre band pomeridiane. Sanno il fatto loro, e si vede. Tredicesima band della giornata, i Flowers and Paraffin. Difficili da metabolizzare, nel loro mix tra proto e postpunk e new wave di respiro d’oltremanica, per quanto in linea con il genere presentato, propongono una manciata di brani dalla struttura (verso tranquillo, ritornello super stracciato) e dal sound incredibilmente uguale. Si salvano dal baratro della noia assoluta, solo per il mordente dimostrato. Subito dopo, tocca a Tartaglia & Aneuro, tra i migliori della giornata. Una band decisamente giovane ma che riesce a far toccare il cielo con un dito al pubblico fino a poco prima inconsapevole. Anche loro frutto dello Jam Camp, i componenti del gruppo si dimostrano già a loro agio con i palchi più grandi, portando a Marina di Camerota un misto tra gipsy e folk, mescolato a qualche minuto di rap, senza ricadere negli stereotipi. Presenza scenica sul palco più che buona e testi intelligenti ed ironici. Già pronti per aprire un headliner, senza alcun problema di resa. Gli Aeguana Way, al contrario, risultano incresciosamente insipidi. Il loro pop-rock identico alla quasi totalità di ciò che si può sentire un pomeriggio di noia, tra i correlati di YouTube, facendo mancare la voglia anche di premere stop sul player. Per quanto la loro preparazione tecnica risulti più che adeguata, lasciano il tempo che trovano. Ancora peggio L’erba sotto l’asfalto, un collettivo che non fa altro che confermare le impressioni dello scorsa edizione. Si presentano presuntuosamente come un mix tra Subsonica e Verdena, non avendo né la grinta dei primi né la storia dei secondi. Che non basti urlare “Cazzo” ogni dieci parole dal palco per essere delle rockstar è risaputo e con il loro moscio pop-rock ne danno conferma, suscitando anche qualche risata tra i pochi presenti con gli occhi puntati sul palco. Sembrano invece bravi i Neurodeliri, capaci di miscelare del punkrock ‘78 con del folk attuale. Riescono a colpire bene e l’attenzione sale di nuovo. Intanto inizia a fare un po’ più freddo. L’esibizione di Claudio Gnut segue perfettamente le aspettative: aldilà dei pareri personali, il cantautorato gentile e un po’ introverso riesce tranquillamente ad arrivare al cuore dei presenti.
Si alza il vento e sul palco salgono Le Luci della Centrale Elettrica. Andando subito al sodo: Vasco Brondi sembra cambiato, molto ed in meglio. Chiunque abbia mai assistito ad un suo concerto lo ricorderà come schivo e chino sulla sua chitarra, poco propenso al dialogo con il pubblico, un po’ timido almeno all’apparenza, e molto sulle sue. Con il tour Costellazioni, la cui resa dal vivo è senza dubbio la migliore della sua carriera, questi paradigmi si sciolgono come lacrime nella pioggia. Vasco (e la sua band) è risultato incredibilmente vitale, correndo da parte a parte del palco, rivolgendosi spesso al pubblico, suonando sotto la pioggia fino allo stop per evidenti cause di forza maggiore a metà concerto, ricominciando appena possibile. “E adesso vorrei che la pioggia, non si fermasse mai” cantano sottopalco. Quasi tutto il nuovo album in scaletta con qualche tuffo nel passato (“Piromani”, naturalmente, ma anche “Per combattere l’acne”, fino a “Quando tornerai dall’estero”) e due cover: “Summer on a solitary beach” di Franco Battiato ed una “Emilia Paranoica” dei CCCP da urlo. Un concerto tanto emozionante quanto appagante,rende davvero felici vedere esplodere, finalmente, anche l’aspetto live di uno dei pochi veri cantautori italiani figli del loro tempo. La smaterializzazione e la frammentazione delle grandi storie, appartenenti a decadi fa, riescono a ritrovare una forma funzionante anche se decontestualizzata nella voce di Vasco Brondi, rendendo impossibile identificare il particolare se non in relazione con gli altri elementi giustapposti nella composizione dei suoi brani. Il risultato, come è stato per altro nel bell’album da cui il tour prende nome, è dare delle idee delocalizzate, inattinenti al singolo, dei colori, delle sensazioni in cui è facile perdersi e ritrovarsi. Un rapido ma cordiale saluto e le luci si spengono. Si va a dormire con una bellissima sensazione.
Il terzo giorno si apre con i Radiocroma che riescono (fortunatamente) a recuperare l’esibizione del giorno prcedente. Il loro sound risulta compatto e vario, accompagnato da visual che però, a causa della luminosità di questo terzo pomeriggio di festival, non risultano ben definiti sul ledwall. Risultano essere davvero bravi, proponendo un rock sperimentale che non annoia e che fa della ricerca il suo punto forte. I The George Fravis Band guadagnano il palco e, in men che non si dica, impongono subito la forza del loro sound: un alternative rock molto curato e ben arrangiato che fa divertire l’audience, nonostante l’orario ed il caldo. La loro staticità sul palco non risulta essere un problema e sembra preparare la scena ai The Bubbles, di nuovo sullo stage del Meeting. Pop-rock anni 60/70 con chiari riferimenti alla scuola di Liverpool. Impossibile restare fermi sottopalco, si riconfermano come una delle più divertenti realtà campane che abbiano calcato il palco di Marina di Camerota. Un po’ meno entusiasmo per LeLingue (citazione del logo degli Stones). La loro intenzione è buona, ed il sapiente uso dei fiati e dei cambi di tempo sembrano riuscire a sottolinearlo. Ma qualche piccola imprecisione nella voce (che può anche starci, in questo contesto) ed un’idea di fondo un po’ debole, non fa in modo che la band colpisca al centro del bersaglio. Hard rock nello standard per gli Over the edge, senza colpi di coda e con una tenuta del palco piuttosto misera. Voce molto buona con virtuosismi non da poco, ma ciò non riesce ad equilibrare lo scompenso. La cover di “Helter Skelter” è forse il momento migliore dell’esibizione dei Plug and play, un duo classic hard rock in formazione chitarra/voce e batteria. Godibili nei primi minuti, ma la mancanza di un discorso di fondo e di qualche variazione nel sound fa abbassare velocemente il livello di attenzione. Piacevole e sognante la performance dei Poppo – Piccola Orchestra per Prestazioni Occasionali. Pop-folk molto ben composto con un sound stratificato. La loro capacità si riscontra nella reazione del pubblico che, già abbastanza folto, sembra essere svegliato da un torpore inverosimile e che inizia finalmente a ballare.
Inizia così un trittico eccellente: prima The Shak & Speares con uno gipsy folk rock da big band. Ideali per tirare su l’animo, la loro esibizione risulta davvero sopra le righe: il pubblico balla (e molto) e risponde ai cori richiesti dalla band. Alla loro uscita dallo stage, un folto numero di persone continua ad intonare cori dai loro brani, nella speranza (purtoppo vana) di un bis extra scaletta. Sarebbe stata indubbiamente una bella sorpresa. Si prosegue, poi, con i kuTso, sempre di un livello altissimo. Il loro rock è fuori da ogni regola, con una tenuta di palco da invidiare. Non restano fermi un istante coinvolgendo oltremodo il pubblico in strane (ma brillanti) coreografie. Si sentono urla disumane dalla platea, ma è tutto normale: è solo un modo per dimostrare il proprio apprezzamento. Regalano una buona mezzoretta di ottima musica, rendendo tutti felici. Completano il trittico Sabba e gli Incensurabili, anch’essi non nuovi al bel palco del Meeting. La band napoletana tiene fede alla sua fama, offrendo una performance perfetta in termini di resa, con testi intelligenti ed una preparazione impeccabile. Non v’è nulla che non sia al suo posto. Giusta la decisione di farli suonare sul tardi. I Foja sono gli ultimi in scaletta, prima degli immensi Gogol Bordello.
Senza alcuna ombra di dubbio o perplessità, quella dei Gogol è stata la più bella esibizione live al Meeting del Mare, quantomeno negli ultimi sei anni. La distanza siderale da qualsiasi altro gruppo che si esprime nella tenuta del palco e nella capacità di coinvolgere chiunque, è evidente sin dall’uscita del primo elemento della band. La sensazione di benevolenza, quasi di affetto, che scaturisce naturalmente, si compone a livello subatomico dalla capacità della band di darsi, senza alcun freno, al proprio pubblico. Dai sorrisi del baffuto Eugene agli occhiolini del pirata Sergey, sino alla potenza esplosiva di Elizabeth e allo sguardo soddisfatto di Pasha. Anche in questo risiede quel germe che ha reso i Gogol tra le più grandi band del mondo: ognuno dei componenti struttura l’esibizione nel rapporto con gli altri ma, al contempo, non si appiattisce, riversando la propria personalità (forte e decisa) nel tutto. Il risultato, come al solito, non è la semplice somma delle parti, ma sta nel profondo che viene portato alla luce dall’urlo liberatorio di “Not a crime” o nella chitarra battente di “Wonderlust King”. Puro delirio durante l’immancabile “Start wearing purple”, capace di diffondere gioia nonostante il testo non propriamente ricco di positività.
Dopo il sudatissimo dj-set firmato dal progetto Cybercoma (Jamel/Ciaramella/Gotti) capace di non far calare l’attenzione anche dopo una esibizione di questo livello, si ritorna a casa stanchi ma felici, in attesa dell’ultimo (e mistico) giorno.
Si comincia tardi, alle 20:00 circa, dopo il lungo ma intenso soundcheck di Franco Battiato, big della giornata. Aprono i poetici Mathì con delle belle atmosfere e ritmi dilatati. Sembrano essere perfetti per
l’orario, rendendo il tramonto su Marina di Camerota ancora più speciale. L’elettropop di Lucio è invece una nota stonata: basi e ritornelli prevedibili che profumano di noia sin dalle prime battute, mescolate ad una voce finta ed impostata, identica in tutti i brani, senza alcuna variazione. Terminano velocemente la loro scaletta e lasciano posto ai JFK e la sua bella bionda. Questi si ritrovano dopo un anno sullo stesso palco, ma per loro il tempo sembra non essere passato. A parte qualche stecca del frontman, la loro esibizione si disperde nel grigiore più assoluto, risultando piatti e senza alcuna caratteristica degna di nota. Di anno in anno, la band non varia minimamente la propria impostazione, non facendo affatto tesoro dell’esperienza accumulata. C’è solo la forma ed il presuntuoso atteggiamento della band affermata, ma la sostanza è impalpabile ed invisibile. Decisamente meglio (ma sarebbe stato così per chiunque) i Renanera, un bel progetto elettrotaranta/popular music con una miriade di buone idee, a volte portate a compimento. Fanno ballare e coinvolgono al punto giusto. Discorso simile per i Cilentosona, ottimi esecutori ma poco propensi all’innovazione. Riescono comunque ad offrire una ventina di minuti di sano divertimento folk.
Un fuori programma con l’esibizione dei Carpocapsa, duo composto dalla coppia Laurito/Oristano, che propongono giusto un paio di brani con chitarra/armonica e piano. Cantautorato raffinato e testi ricercati. Non professionisti, come affermano loro stessi, ma cultori. E tanto basta per guadagnarsi la simpatia del pubblico. Niente di nuovo sotto le costellazioni per Danamaste ed il suo prog-rock cantautorale. Forse per un calo di voce, il frontman esegue tutta la prima parte del primo brano stonando. musicalmente non presentano niente di incredibilmente originale, ma già dal secondo brano mostrano i muscoli, riguadagnandosi la fiducia dell’audience. Tocca a Nicodemo chiudere la rassegna degli emergenti del quarto ed ultimo giorno del Meeting. Il suo folk cantautorale è ben curato ma poco vario, suona parecchio ma non riesce a catturare l’attenzione del pubblico, già proiettato verso l’headliner della serata. Subito dopo una strana esibizione dei Pennelli di Vermeer (simpatici sul palco e divertenti nel porsi, ma che non sembrano riuscire a lasciare il segno più di tanto), giunge l’ultimo momento musicale del Meeting. E non è cosa da prendere alla leggera, visto che è affidato a Franco Battiato.
Seduto su una piattaforma in gommapiuma, coperta da un tappeto, Battiato è senza tempo. Indefinibile nella sua etereità, con poche parole riesce a costruire un mondo: sul palco resta seduto per gran parte del tempo, ma non si riserva qualche balletto davvero inaspettato. La sua esibizione è intensa, intima. Svela man mano tutte le carte a disposizione, attraversando quasi interamente la sua lunga carriera. La grandezza dell’artista si esprime nella sua capacità di essere arrivato alle masse, senza mai perdere un colpo, donando alla sua produzione una vena pop capace di abbattere senza troppe difficoltà la barriera d’ingresso costituita dalla profondità dei testi e dalle scelte di registro linguistico e stilistico che l’avrebbe sicuramente allontanato dalle folle. Tra un “Povera patria” ed una “Stranizza d’amuri”, Franco sogna e lascia sognare, offre uno spettacolo di cui fa parte, discute spesso con il pubblico, racconta aneddoti, storie. Ride molto e sinceramente, si diverte. E’ la prova vivente che tutte le direzioni sono la stessa, se seguite con un metodo; che nel tutto c’è il tutto; che si possono lanciare messaggi profondi e fare musica di un’ottimo livello; che si può arrivare al grande pubblico senza vendersi. Un caso raro al mondo e quasi unico in Italia, che dovrebbe essere d’esempio per chiunque: dal punkrocker più sfegatato all’animale da party elettropop. E’ difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire, ma Franco riesce ad indicarci in parte la via.
Dopo quattro giorni di sole cocente, di pioggia torrenziale, di vento, di fuoco, aria, acqua e terra, dopo una cinquantina di concerti, migliaia di foto scattate, pochissime ore di sonno, di pubblico scalpitante, di qualche problema tecnico evitabile e qualcuno inevitabile, questo diciottesimo compleanno del Meeting del Mare riporta al suo tema. E’ questa l’origine, il punto di partenza, lo zero assoluto, dal quale il Meeting riparte, maggiorenne e più forte, maturo ma spensierato, sempre nuovo ma su basi solide. Il miglior Meeting degli ultimi sei anni per mood e per cast. Superato, si spera, solo da quello del prossimo anno.
Autore: A. Alfredo Capuano
Foto di A. Alfredo Capuano ed Emanuela Martucci
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