Circostanza, o meglio “causale” inedita per la visione di questo concerto, ma soprattutto per l’essersi sobbarcati una trasferta di cui si era un po’ persa l’abitudine (non è mai troppo tardi per rintuzzare gli assalti di una pseudo-vecchiaia precoce, convenite?). Causale che è giusto esuli dalla trattazione di questo concerto, per evidente irrilevanza con i fattori di fruizione e di gradimento dello stesso. Ok, non sempre è così, se siamo ubriachi, nervosi o gasati ciò ha un peso, ma è bene sempre ridimensionare ciò che, probabilmente, al lettore non può fregare granchè.
Siamo quindi all’Alpheus, primo elemento di questa live gig. Discoteca più che vero e proprio spazio-concerti, con qualche colonna di troppo a poca distanza dal palco. Sorge già qualche sospetto sulla resa di un concerto, come le CocoRosie implicitamente richiedono, che ha bisogno del massimo silenzio in sala perché ne si catturino in pieno le sottili – e tutt’altro che “loud” – sfumature. Ma forse è questione di pubblico, ossia di superamento del limite numerico fisiologicamente compatibile con un regime del tipo “rumore zero”.
Bianca (la bionda) e Sierra (la mora) Casady portano con sé delle novità rispetto al tour tardo-primaverile: un beatboxer di colore (tch-thump-tu-ptch con la voce per quasi tutto il concerto), un’assistente (donna) al walkman e agli altri “giochini” volontariamente fatti interferire sul sound (parto dal presupposto che abbiate ascoltato “La Maison de Mon Reve”), la madre (!!), fotocopia di Sierra, che ogni tanto va di timidissime backing vocals. Dispacci d’agenzia parlano anche del loro cane in tour, ma sul palco non si scorge presenza animale non umana. Novità che testimoniano come il sound delle CocoRosie sia ancora “provvisorio”, poco più che embrionale, e quindi malleabile rispetto ad eventuali sollecitazioni creative esterne. Che non mancano, come si vede, da buone testine fertili quali le Casady sisters hanno già dimostrato di essere. Fertili e sveglie: come altrimenti invogliare a un tour a così stretto giro, come detto, dal precedente?
Strano che la set-list abbia omesso quella ‘By Your Side’, così suadente da essere stata scelta per l’apparizione su MTV, oltre che – insieme a ‘Terrible Angels’, che apriva scricchiolante l’album – per il singolo promozionale del tour. Non è mancato invece, di questo singolo, l’inedito B-side ‘Beautiful Boyz’, oltre che qualche altra non-album track per rimpolpare un set altrimenti esiguo. E si segnala, quasi in chiusura, ‘Hawaiian Song’, qui in una solenne e quasi ossianica versione con tastiera impostata sul timbro dell’organo (a fronte di una flautata album version da incantatore di serpenti).
Ma, e lo ripetiamo, tutto il set è stato funestato da un atmosfera poco congeniale, causa pubblico – la porzione disinteressata, nelle retrovie – e struttura, anche estetica, del locale. Quasi non si capisce più cosa Bianca e Sierra stiano a fare lì, sedute sulle loro sedie, vittime di un circolo vizioso rumore-irrequietezza che, nel sottrarre appunto senso alla loro presenza, tende a sottrarre anche l’interesse di qualche presente.
Il problema sembrerebbe dover riguardare anche il barbuto folk-singer newyorkese (fidanzato di Bianca, per la cronaca – rosa, chiaramente), visto a Barcellona solista e acustico, se non fosse che – furbo, verrebbe da dire, ma la cosa, s’intende, non è studiata – lo stesso si porta appresso altri 4 elementi – perlopiù anch’essi barbuti – per presentare “Nino Rojo” (album che in Europa arriva tramite Beggars, la più “major” delle “indie” – fate voi…). Una band, vera e propria, che il rumore lo fa, anziché subirlo. Una band con cui Devendra, dopo un inizio anch’egli seduto, dà fuoco alle polveri di un country-folk-rock elettrico e irrequieto – profondamente radicato in un sincero spirito freak-roots anziché adagiato su “cartoline sonore” di steel-guitar dal facile smercio – in cui il lirismo forbito di Tim Buckley – cui la voce e una certa gestualità rimandano – abbraccia l’irruenza “boscaiola” di Neil Young e, soprattutto nell’estetica, certa dissolutezza woodstockiana – per non dire anche un pizzico di iperbole morrisoniana. Se è rimasta un po’ d’attenzione libera da altro, meno produttivo rumore, è il caso di prestarla al talento di Devendra. Altrimenti, è bene farsela trovare. Ne vale la pena, e non poco…
Autore: Bob Villani