In giro si dice che i canadesi Black Mountain son bravi ma non convincono, lasciando ‘fredda’ la critica musicale nei confronti dei loro lavori.
E meno male che non convincevano!
Forse i critici sono a casa stasera, ma il pubblico dei Black Mountain è proprio tutto qui. Varcata la soglia della sala concerti, una muraglia cinese impenetrabile di gente stipata da aver voglia di andar via se non fosse stato per quei suoni potenti ma chiari e puliti che catturano subito l’attenzione, nonostante le condizioni ambientali siano più adatte a qualche pianta esotica che agli esseri umani.
Ci vogliono tutte e tre le serate dello Stoned Hand of Doom per totalizzare il numero dei presenti di stasera, e l’evento tirato in ballo non è casuale, poichè, come si sa, i Black Mountain fanno un hard rock psichedelico devoto ai classici degli anni settanta, ed anche lo S.H.O.D. promuove fortemente il genere suddetto: perchè Roma risponde allora in modo così contraddittorio ad eventi simili?
Perchè i nostri sono su una label alternativa come Jagjaguwar? Perchè hanno un paio di video cool ben prodotti che magari girano sui network che contano?
Bastano pochi minuti per rispondersi, minuti in cui si ripropongono le stesse perplessità dell’ascolto casalingo e che stasera si fanno certezza: i Black Mountain non sfociano mai nel delirio acido, nel maelstrom tossico, nel gorgo sfrenato che da questa musica ci si aspetta.
La caratteristica principale dei Black Mountain è quella di una padronanza assoluta del suono che vogliono produrre pur essendo fautori di un genere naturalmente votato ad andare ‘sopra le righe’. Terribilmente, volutamente calligrafici. Se fosse possibile aggettivare con un ossimoro il genere dei Black Mountain, direi ‘hard-rock da camera’, cioè una versione narrata, didascalica di alcuni episodi più belli della storia del rock dei seventies ma ripulita da ogni orpello accessorio, privata del feedback.
Se l’hard rock fosse un sogno, i Black Mountain sono il racconto di quel sogno. Ed anche il racconto di un sogno è cosa bella e se raccontato bene è capace di incantare; ‘hard rock da camera’ non significa ‘hard rock da supermercato’.
I loro riferimenti sono puri ed eccelsi ed una fede assoluta in questo culto permette loro un live senza nessuna esigenza scenica, anche se chi è più attento all’estetica del palco che a quella della musica condanna senza appello la fisicità statica della Amber Webber. Eppure la voce femminile dei Black Mountain è la rivincita del mesmerismo sulla scienza ed ogni volta che il suo canto sale, da sola o doppiata da quella del leader Stephen Mc Bean, immagini della fu Grace Slick dei sempiterni Jefferson Airplane ci indicano il sacro sentiero a ritroso percorso dai canadesi.
Difficile suonare questa roba nel 2010 riuscendo a non essere ‘stoner’ neanche per un secondo. Neanche nella cavalcata veloce di ‘Let Spirits Ride‘ (tratta dall’ultimo ‘Wilderness Heart’), nei riff granitici di ‘Tyrants’ o di ‘Roller Coaster’, brano tra i più graditi della serata dall’audience, oltre all’opener del precedente ‘In the Future’, ‘Stormy High’, dove svolazzi ‘psych’ prendono il sopravvento sui nostri corpi surriscaldati.
Oltre alla sapiente chitarra di McBean e allo stupendo intreccio di vocals maschile/femminile, molto del fascino vintage è merito delle tastiere di Jeremy Schmidt che a tratti sembrano più anni ottanta che settanta, riproducendo quel particolare suono analogico che può ricordare Klaus Schulz, se vi piacciono (o Jean Michel Jarre se vi irritano).
Il bis, prima del finale space-oriented alla Hawkwind, unico momento pagano della serata, prevede la ballatona in stile Neil Young pacificato ‘Stay Free’ e se tra le passioni dei cinque di Vancouver aggiungiamo anche il miglior progressive di stampo crimsoniano (in certi passaggi come nella parte centrale di ‘Tyrants’ un paragone con una versione meno folk e più elettrificata degli Espers non è azzardata), potrete avere un’idea del perfetto bignamino sonoro di cui son capaci i Black Mountain.
Autore: A.Giulio Magliulo
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