Non posso rendervi conto di Ed Kuepper & Jeffrey Wegner che concludevano il loro opening-act mentre mi affrettavo a raggiungere il teatro tenda, se non che da lontano mi sembrava di scorgere qualcosa tipo gli Echo & the Bunnymen. Nick Cave e i Semi Cattivi fanno il loro ingresso con passo deciso alle 22 e attaccano in sordina con le atmosfere stranianti di Night of the lotus eaters, poi il tormentone barcollante Dig, Lazarus Dig! chiarisce che il sound targato Bad Seeds, di questi tempi non indulge e non perdona. Aggressività a tutti i costi, baldanza – se non teppismo – punk-blues à la Birthday Party di chitarre in distorsione, cui lo stesso Cave (un anziano analfabeta) e Ellis (un rocker improbaile) si relegano, o meglio si declassano, al ruolo di scavezzacolli, a discapito rispettivamente del piano e del violino. Savage e le sue tastiere soccombono nella tregenda delle chitarre, mentre la ritmica è un motore che non tradisce: il basso monumentale di Casey – a volte cuore, stomaco e cervello insieme – incastrato tra le percussioni e i tamburi degli intercambiabili Wydler e Sclavunos. Ad Harvey, professionista senza eguali, misurato come sempre, qualsiasi cosa suoni, tocca il ruolo dell’acqua santa, l’opera pia di bilanciare gli eccessi, e ce ne vuole di pazienza. Ciò non dimeno, il concerto scivola via apprezzabile e il canzoniere è come sempre generoso nel dispensare pagine di storia e “mitologia”: Tupelo a Elvis, in versione Re-Bestia, la morriconiana Red right hand al Milton de Il paradiso perduto, la superba Nobody’s baby now alla divinità bifronte Amore-Morte, The mercy seat alla barbarie della condanna a morte dal punto di vista del condannato, reo o innocente che fosse. Ma veniamo al doppio orgasmo: il rock ‘n roll sgraziato di Deanna fa resuscitare e invasare i morti, e l’incendiaria Papa won’t leave you Henry – sicuramente il punto più alto – vorremmo non finisse mai, a seguito della quale Cave si fotte il vocione, ma tiene botta con mestiere e da grande bluesman qual è. Dell’ultimo lavoro non sfigurano le arrembanti Lie down here & be my girl e Midnight man, si distinguono la verbosa We call upon the author e la sinuosa Moonland. È il solito Cave disponibile ed esuberante, che punta il suo indice accusatore (e la sua ombra giganteggia alla sinistra del palco), ammicca, sorride, scherza e fa le pose davanti a centinaia di obiettivi, mentre la “sicurezza” decide che è venuto il momento di impedire gli scatti minacciando il sequestro coatto degli apparecchi (in particolare quelli più vistosi), cercando, in altre parole di svuotare un oceano con il secchio e coprendosi, come sempre ovunque, di ridicolo. Intanto sul palco arriva di tutto e Re Inchiostro tutto indossa allegramente: una maglia, un polsino (fingendo di infilarlo nel posto sbagliato), un orologio (!), una scarpa col tacco che finisce vistosamente nei pantaloni; duetta e ingaggia turpiloqui con la gente a colpi di motherfucker, tra le risate generali. Si riprende col blues del macello fin giù ai piedi: Get ready for love e The lyre of Orpheus, col gospel “O mamma” che spetta al pubblico per usucapione. Da Your funeral, my trial viene ripescata a sorpresa Hard on for love, da Henry’s dream una Straight to you buona come le fragole. Il finale è un sexy-blues per il Fottuto Bastardo Stagger Lee, eroe del folclore nero, che scopa e ammazza con altrettanto piacere. Venti pezzi per oltre due ore e tutti vissero felici e contenti. Sotto i baffoni e i barboni luciferini, Cave e il suo degno compare Ellis se la ridono – giacchè la svolta grind è riconducibile a questa comunella – ma resta il fatto che suonando così, i Bad Seeds ridimensionano notevolmente l’Arte e la Bellezza di cui sono capaci. E questo è un bluff che non può durare a lungo.
Autore: Fabio Astore
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