Avremmo potuto aspettarci di tutto da questa serata. Uno dei personaggi più talentuosi e sorprendenti mai ascoltati in questi ultimi anni, Matt Elliott, introdotto in primissima serata da un austero Fabrizio Modenese Palumbo, che in questi giorni sta portando in giro per l’Italia (r), il suo progetto solista fuori dall’orbita Larsen, seguito a ruota da Chris Cole, meglio conosciuto come Manyfingers. E l’attesa per quello che da tempo si annunciava come un evento da non lasciarsi scappare per nulla al mondo non è stata per nulla disattesa, nonostante fino a pochi minuti dall’inizio del breve live degli (r) si era temuto sul serio che l’affezionatissimo pubblico del Jail avesse disertato in massa l’appuntamento, quasi volesse confezionare con un giorno d’anticipo un brutto quanto temibile pesce d’Aprile. Sensazione rivelatasi fortunatamente del tutto infondata, perché già pochi minuti dopo che Fabrizio inizia a far risuonare le note del primo pezzo in scaletta il locale comincia lentamente a riempirsi. Una proposta live, la sua, decisamente coinvolgente per impatto sonoro e trasporto emotivo. Pochi pezzi ma efficaci. Un personalissimo “laboratorio del suono”, come si è trovato a definire il suo progetto in una recente intervista, che traccia movimenti sonori ipnotici, circolari, ansiosi nella loro corsa che accelera, diminuisce il passo, sterza decisa e mai bruscamente verso una direzione inedita ogni volta che la canzone sembra essere giunta a un punto di non ritorno. E, quando il batterista punta il piede sulla cassa intessendo un battito caldo, ondivago, stupendamente affabulatorio è un vero tonfo al cuore. L’incantesimo sembra quasi spezzarsi e subito ricomporsi come fosse materia organica in continua evoluzione, morbida, avvolgente, una vertigine tutta nuova e coloratissima.
Manyfingers, fidato accompagnatore di Matt Elliott per questo tour, aveva in programma una mezz’ora circa di spumeggiante performance live, da solo sul palco. La sua, infatti, si è rivelata un’esibizione tutta fisicità e presenza scenica, forte di un incredibile senso del tempo e della musicalità. Una vera e propria mostra del processo creativo, la nascita in diretta di un suono che lentamente si plasma fino a inseguire le linee della forma canzone. Un vero talento in movimento. Si destreggia con estrema abilità tra batteria, chitarra, piano, violoncello e samples di ogni genere, il tutto ripassato attraverso un piccolo mixer, in un vortice di loop e infiniti strati sonori su uno sfondo umorale velato di sottile malinconia. Non passa molto tempo, però, e lo show di Chris Cole cambia volto e vestito. Sul palco, dopo una brevissima pausa, sale a fargli compagnia Matt Elliott. E, questa volta, di scena sono le canzoni del suo ultimo stupefacente album, “Drinking Songs”. Se su disco, il tono decadente, e mai dimesso, dei brani sembra rivolgersi direttamente al cuore, in una sorta di dolente abbraccio collettivo con il mondo, dal vivo è come se acquistino corposità, e parlino più al corpo, alla pancia. Un brano come “Kursk”, uno dei più emotivamente coinvolgenti e trascinanti del disco, impreziosito anche da una produzione che ne esalta del tutto la cifra malinconica, questa sera è un nudo rivelarsi di sentimenti, asciutti e violenti nello stesso tempo, per nulla compromessi dalla nostra indifferenza quotidiana verso le cose del mondo. Un Matt Elliott affatto politico, che dedica tutta la sua musica, così dichiara, a tutte le persone morte invano, morte, per esempio, per la folle e scellerata politica estera dell’unica e incontrastata potenza rimasta sulla faccia della Terra, gli Stati Uniti d’America. Un’empatia con il mondo e con il proprio pubblico che si chiude stasera, come spesso accade nei suoi live, con “The Maid We Messed”, la cui lunga coda di samples e beat electro composti e ricomposti si muove sinuosa e ripetitiva, allontanandoci non poco dalle atmosfere fino a qui evocate e riconsegnandoci alle cose di tutti i giorni un po’ più consapevoli e, perché no, anche un pochino cambiati.
Autore: Marco Castrovinci
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