Circolo degli Artisti prevedibilmente pieno per il ritorno a Roma dei Massimo Volume.
Erano venuti solo tre mesi fa ma il pubblico del rock italiano sembra non avere altro su cui poter contare, dopo i presunti tradimenti artistici e ideologici dei nomi più conosciuti di quello che un secolo fa era il rock alternativo italiano, nomi che non c’è più neanche bisogno di fare.
Eppure non basta come spiegazione, anche perchè non è vera, o non del tutto: c’è un sottobosco notevole di nuova musica qui da noi (ma i nostri lo sanno e tra qualche giorno pubblicheranno uno split con i Bachi da Pietra) mentre nei Massimo Volume c’è altro ed è qualcosa che va cercato nella memoria collettiva di una generazione che in qualche modo ha vissuto l’ultima stagione in cui era possibile distinguere le cose: certe emozioni non possono essere solo frutto di un buon disco.
Era il 1993 quando usciva Stanze, un disco rock italiano, il meno italiano che forse avessimo mai avuto ma cantato esclusivamente in italiano. Esigenza di verità si diceva, anche se intessendo un diario personale con un narrazione da romanziere americano. Buono, ottimo.
Da allora quella è stata la strada che tutti conosciamo, percorsa con una coerenza apparentemente disumana.
Stasera come del resto in tutti gli ultimi loro shows cui mi è capitato di assistere, si comincia con Altri Nomi: sembra quasi che vogliano togliersi l’incombenza di toccare l’album meno fortunato, quel Club Privè in cui si provò a ‘cantare’ ma gli unici pezzi tratti da quell’album (Seychelles ’81 oltre alla già citata Altri Nomi) sono quelli in cui non si ‘canta’.
L’ultimo album viene giustamente snocciolato quasi tutto, c’è la Coney Island con la sua coda di post-rock atmosferico magistralmente ripetuta dalle due chitarre Sommacal e Pilìa (che spesso utilizza la sua Fender con archetto di violino), c’è l’opener Robert Lowell manifesto del nuovo corso, la toccante Le Nostre Ore Contate che lascia più di una riflessione su come abbiamo trascorso il nostro tempo.
Fausto e Litio sono il link ai Massimo Volume del 1993, i due brani che servono a legittimare oggi quella discendenza con tutto un universo post-punk e noise (non si diceva ancora post-rock nei primi ’90 italiani) che erano il trademark di quella prima fase; tiratissime e nervose, in esse si apprezza ancora il lavoro chitarristico mai troppo evidenziato quando si parla di Massimo Volume, schiacciato come è dal peso delle parole e del personaggio Emidio Clementi, suo malgrado. Meriterebbe maggiore considerazione Sommacal che è un chitarrista atipico e molto capace, dotato di soluzioni davvero ‘avant’ rispetto alla media di ciò che ascoltiamo anche da più titolate bands d’oltreoceano così come il più giovane Pilìa, gregario perfetto grazie al suo stile completamente diverso da quello di Egle, più istintivo e noise, meno ragionato e quindi perfettamente autonomo e al tempo sovrapponibile.
Il bis è un vero regalo per i vecchi fan con i suoi brani tratti da Stanze: Insetti, spietatamente math, la sempre invocata Ororo, il dramma autistico di Alessandro, Tarzan e Cinque Strade in cui sentiamo cantare anche Vittoria Burattini, che in realtà non ha una bella voce, ma non è importante.
Tra un brano e l’altro mai una parola, un gesto o qualcosa che vada al di fuori della mera esecuzione; ogni brano sembra affrontato come un esercizio spirituale e tutto quello che va al di là dei loro contenuti è vissuto come calo di tensione e dannosa diluizione della loro essenza artistica.
Se non sapessimo che questo è funzionale alla rappresentazione dei Massimo Volume potrebbero perfino sembrarci antipatici. Soltanto che viene spontaneo chiedersi per quanto tempo si può restare sempre uguali a sè stessi senza mai cambiare e senza mai morire.
Autore: A. Giulio Magliulo
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