Birra, heavy metal e sudore. L’edizione del Gods Of Metal 2005 è stata per molti versi imperdibile. Una scaletta all’insegna delle grandi reunion (chi ha detto per motivi economici?) e di nomi di primo piano, divisi in due giorni di puro metallo senza compromessi. L’Arena Parco Nord, per la seconda volta consecutiva teatro della manifestazione, si rivela estremamente adatta ad ospitare questo tipo di festival: tutti hanno la possibilità di occupare una discreta posizione “strategica” durante i concerti, ha una capienza davvero rispettabile ed è all’aperto, necessità imprescindibile per una manifestazione strutturata in due giorni nel mese di Giugno. Il Gods Of Metal racchiude in sé anche un valore strettamente sociale: anime provenienti da tutta Italia e da tutto il mondo in nome di un genere musicale che, per quanto spesso criticato, è forse il più “caratterizzante” che esista. Trovare l’impiegato di banca che rispolvera il suo chiodo per assistere agli shows delle proprie bands preferite, quelle con cui è cresciuto e con cui vuole continuare ad invecchiare. Vedere il ragazzino accompagnato da genitori alquanto attoniti di fronte a persone spesso dal look “particolare”. Parlare con comitive infinite di giovani disposti a macinare chilometri in condizioni “precarie” solo per dire: “c’ero anche io”.
Questo è il Gods Of Metal, forse il primo festival metal italiano che ha la possibilità di competere con le più grandi kermesse europee (vedi Wacken Open Air). Si succedono senza grandi picchi qualitativi Evergrey (a cui è dato l’arduo compito di aprire le danze), Mudvayne (il loro hardcore in stile Slipknot appare completamente fuori luogo, per quanto ben fatto), Mastodon e Dragonforce. Grande attesa per l’esibizione degli Strapping Young Lad, stranamente inseriti primi di Obituary e Lacuna Coil. David Towsend è una icona del metal internazionale, un artista eclettico che in passato ha cantato in ‘Sex & Religion’ di Steve Vai (album di hard rock prettamente classico) e che adesso è dedito ad un metal estremo di matrice americana. Il suo show è distruttivo, senza pause e con la batteria del corpulento Gene Hoglan che martella dall’inizio alla fine. Il cielo comincia a coprirsi di nuvole come se fosse spaventato dallo scream del singer americano. I successivi Obituary, padrini della scena thrash americana danno vita ad una esibizione precisa ma penalizzata da un sound non ancora perfetto. È il momento dei Lacuna Coil. Iniziano bene con una precisa e potente ‘Heaven’s A Lie’ e con il singolo ‘To Live Is To Hide’ ma la dinamicità iniziale dei singer va perdendosi. Lancio di bottiglie immancabile ma, per fortuna, limitato a pochi ignoranti non coscienti del fatto che è già importante vedere una band italiana immediatamente prima di due mostri sacri del metallo come Slayer e Iron Maiden.
Sono proprio gli Slayer che salgono sul palco, dando vita al solito gig. L’impressione è che gli americani siano diventati degli ottimi esecutori ma che abbiano lasciato l’anima a casa. Lombardo è l’abituale macchina da guerra e i chitarristi svolgono in pieno il loro compito. Ma l’interazione con il pubblico è stata praticamente inesistente. L’attesa diventa febbrile e la tensione sfocia in un boato quando il pubblico vede arrivare i mostri sacri del metal, gli inglesi Iron Maiden. Serpeggiava la notizia che la band facesse solo brani dai primi quattro dischi, essendo in Italia per il tour di promozione del DVD in uscita, ‘Early Days’. Così è stato. Dickinson si è confrontato con brani scritti originariamente per la voce di Paul Di Anno e se l’è cavata egregiamente. Uno show adrenalinico tra ‘Murders In The Rue Morgue’, ‘Revelations’, ‘Remember Tomorrow’ e ‘Ides Of March’ che ha mandato in delirio il numerosissimo pubblico presente. I chitarristi Murray, Smith e Gers sono in splendida forma così come l’inconfondibile basso pulsante di sua maestà Steve Harris. Dickinson sa come incitare il pubblico e le conclusive ‘Hallowed By The Name’, ‘Running Free’, ‘Phantom Of The Opera’ e ‘Drifter’ concludono uno show superlativo. Passa la notte, la gente si accampa come può tra birra e musica sparata ad altissimo volume. Camminando in quel paesaggio apocalittico sembra di rivivere gli anni di Woodstock. Arriva il sole e alle 10 si riparte con il new metal di Exilia, Extrema e Hammerfall, tutti degni di suonare sul palco. Ma è il momento di Zakk Wylde e dei suoi Black Label Society. L’ex chitarrista di Ozzy Osbourne tiene il palco come pochi sanno fare.
Una esibizione incentrata su tecnica, riff massicci e birra sputata in faccia ai presenti. Poche canzoni che però racchiudono in se la vera anima southern del metal. Grandi. Passano senza sussulti gli show del chitarrista svedese Yngwie Malmsteen (presente con un singer davvero non all’altezza) e Accept, sempreverdi del metal tedesco. Arrivano gli Anthrax in formazione originale, in occasione di questo festival. Snocciolano uno dietro l’altro i pezzi storici e recenti con una precisione d’esecuzione davvero invidiabile. Da brividi ‘Medusa’, ‘Air’ e Spreading The Disease’. I successivi Megadeath, con il solo Mustaine della formazione originale, deludono le attese. Una prestazione accademica e senza anima. I più attesi della serata sono i Motley Crue, gli “sporcaccioni” del rock n’roll. Anche la loro reunion, punta tutto su di uno show vero e proprio, farcito di spogliarelli e chitarre pesanti. Perfetti i classici ‘Girls Girls Girls’ , ‘Shout At The Devil’ e ‘Ten Second To Love’ con un Tommy Lee decisamente ubriaco ed un Mick Mars logorato dalla sua malattia alle ossa. Il sipario sta calando e la gente comincia a defluire dall’arena. La stessa terra che prima era calcata da migliaia di stivali adesso appare sola. Le considerazioni su questa due giorni potrebbero essere migliaia. L’unica seria, sarebbe chiedersi quale sia la finalità della musica: emozionare, probabilmente. Ed allora questo “Gods Of Metal 2005” c’è riuscito in pieno. A prescindere dalle motivazioni che stanno dietro a queste reunion mitiche e dal sapore leggermente malinconico. Stando così le cose, arrivederci all’anno prossimo.
Autore: Andrea Belfiore
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