Le premesse non erano delle migliori: i sospetti che il festival avesse un’organizzazione per così dire “precaria” m’erano venuti già qualche settimana prima dell’evento.
Cosa avreste pensato voi, notando che dei nomi di artisti precedentemente annunciati venivano cancellati non solo senza nessuna motivazione ufficiale, ma anche in maniera – come dire – “subdola”? Alcuni tra i nomi più interessanti (almeno secondo il sottoscritto) annunciati sul sito del festival semplicemente sparivano – puff! – dalla home page e dai comunicati stampa, senza che a tali misteriosi eventi seguisse la ben che minima notizia ufficiale. E’ il caso dei Mice Parade, di Apparat, degli Animal Collective e, infine, dei Masters at Work.
Evvabbé…nonostante fossi scoraggiato da questi forfait, mi sono deciso ugualmente ad organizzarmi per partire alla volta di Capo d’Orlando, in provincia di Messina (non proprio dietro l’angolo, se abitate a Napoli). Contatto il numero che da’ informazioni sul camping del festival, ma mi vien detto che il campeggio è ormai esaurito, e che c’avrebbero sistemati in un altro campeggio. Pazienza. Invio via e-mail, come richiestomi, il mio nome, cognome etc…, ma non ho nessuna risposta. Decido quindi di chiamare autonomamente il campeggio in questione, per assicurarmi un posto per la mia tenda.
Il campeggio – scoprirò una volta arrivato sul posto – si trova molto, ma molto distante dall’area festival, e i gestori non perdono occasione per sottolineare come “Quelli del festival sono affiliati con noi, ma noi non lo siamo con loro”. Bene.
Il 26 agosto ci presentiamo ai cancelli del festival. Innanzitutto constatiamo che il “campeggio del festival” (quello “ormai esaurito”) altro non è che un precario accampamento sulla spiaggia. Dopodiché ingenuamente chiediamo di poter avere un programma con gli orari di esibizione degli artisti. Ci porgono una fotocopia chiedendoci però di restituirla quanto prima, perché si tratta dell’unica copia esistente (sic!).
La giornata di musica avrebbe dovuto iniziare alle 14. Ma si parte con quasi cinque ore di ritardo. C’è pochissima gente, e non ne arriverà molta di più nel corso della serata. Dal momento che a questo punto (cioè: da subito) il programma che abbiamo faticosamente memorizzato può già considerarsi inattendibile, l’identificazione degli artisti meno conosciuti si rivelerà alquanto complicata, e capire dove/quando si esibiranno gli altri è più o meno come giocare alla caccia al tesoro.
In verità non ci vuole molto per avere le conferme delle perplessità del pre-partenza, per pensare che questo festival sia organizzato di gran lunga peggio della più modesta sagra paesana. I gruppi non hanno fatto soundcheck. E agli organizzatori sembra naturale far subire interminabili “one-two-check” agli spettatori. Le prove tecniche sono interminabili, a volte durano anche più delle esibizioni stesse. La location, una bella, grandissima spiaggia, è assolutamente priva di servizi igienici (?!). Non ci vuole molto per immaginare in che stato sia stata ritrovata il giorno dopo la fine del festival. L’illuminazione dell’area è praticamente inesistente. Per mangiare qualcosa bisogna uscire dal perimetro di recinzione. I tre palchi sono posizionati in maniera quanto meno bizzarra: il palco più vicino all’entrata è esageratamente lontano dagli altri due, e diventa presto una sorta di “ghetto” per gli appassionati di drum’n’bass e techno; gli altri due palchi (quello principale e un palchetto secondario) sono ridicolamente vicini. E ovviamente, quando su uno dei due i ritmi e i suoni si fanno meno “incisivi”, il disturbo acustico causato dallo stage promiscuo è assicurato. Il “boat-stage”, palco “galleggiante” annunciato come fiore all’occhiello del festival, si è rivelato ben presto pura leggenda metropolitana. Anche se dei ragazzi siciliani continuavano a sostenere che sarebbe spuntato al largo da un momento all’altro.
Il primo giorno, inoltre, poche ore dopo l’apertura inizia a serpeggiare la voce che il concerto dei Plaid, piatto forte del giorno, sia saltato. Ovviamente nessuna comunicazione ufficiale, né all’entrata, né dal palco. Dopo un po’ la notizia sembra essere confermata. I Plaid non suoneranno, ma di comunicazioni ufficiali manco a parlarne…
Il 27 agosto il pubblico è molto più numeroso, e uno speaker sul palco, sebbene piuttosto ridicolo, serve a capire “cosa sta succedendo”. Si respira finalmente un’aria diversa, più festosa, ma con i medesimi disagi del giorno prima.
Peccato che in un articolo su di un festival del genere, la musica debba inevitabilmente finire in secondo piano. Eppure – nonostante le numerose defezioni – di musica buona (o potenzialmente tale) ce n’era.
Belli i concerti di Settlefish e …A Toys Orchestra, sebbene entrambi “provati” psicologicamente da soundcheck estenuanti. Come sempre molto tirati e precisi i primi, capaci di proiettare gli ascoltatori in un vortice di chitarre inebrianti, e di stuzzicarli con una sezione ritmica nervosa ed incisiva. Bravi anche i secondi, nel fondere melodie cristalline e schitarrate “sporche”, rimandi al pop 60’s e all’indie-rock “classico” di Pavement, Blonde Redhead etc.
Incomprensibile la scelta di proporre il particolarissimo progetto “The Merola Matrix” di Hugo Race in un contesto del genere, dato che i leggeri sussurri sonori dell’artista australiano venivano letteralmente sommersi dal tunz-tunz del palchetto a fianco (vedi sopra…). Divertente e godibile lo showcase della Warp: beat sminuzzati e improvvise impennate di drum’n’bass “deviata”, un occhio al dancefloor e l’altro alla sperimentazione digitale. Deludente il set di DJ Lord dei Public Enemy, indeciso tra tentazioni patinate (che il pubblico disapprova fischiando senza tanti complimenti) e inevitabili citazioni di hip hop old-school (A Tribe Called Quest, Cypress Hill). Da standing ovation, la lezione di turntablism nel finale. Gli Asian Dub Foundation del 2005 sono solo una copia sbiadita di quella band che una decina di anni fa fece ben parlare di sé, grazie soprattutto ai suoi infuocati live a base di hard-ragga-drum’n’bass-crossover-asian-rock. Di quella formazione non rimane che il dj/dub master e il bassista, contornati – loro malgrado – da un manipolo di cantantucoli/ballerini molto ghetto-style e poca, pochissima sostanza. Un live sciatto e debole.
Gli Zion Train fanno quello che ci si aspetta dagli Zion Train: techno-dub-reggae dai toni roventi e i suoni profondi, sospinto da una bella sezione fiati e la splendida voce della vocalist. DJ Spooky, relegato inspiegabilmente sul palchetto piccolo, dà sfogo al suo proverbiale eclettismo, con un set ad alto tasso di “blackness”, tra sprazzi ragga e oscure pulsazioni funk. Amon Tobin, in versione dj, era tra i nomi più attesi dell’intero cartellone. Un set interessante e ambizioso, poco incline ad accontentare tutti quelli (la maggioranza, probabilmente) che avrebbero voluto semplicemente ballare. Il suo è un flusso in bilico sull’orlo del caos, infarcito di rumorismi, beat liofilizzati, elettronica d’ambiente. Solo a tratti si concede fugaci quanto furiose scorribande drum’n’bass, mentre nel finale ipnotizza ed esalta tutti con intelligenti citazioni di Velvet Underground (!) e Slayer (!!). Il live-set più entusiasmante di questa prima edizione di “Musica d’Alta Quota” è stato a mio avviso quello dell’intramontabile Alexander Robotnick. Sul palco troviamo un Maurizio Dami sorridente e in gran forma, accompagnato dal ben più giovane Robert Eno. I due ci fanno ballare fino allo sfinimento (ballare sulla sabbia sarà pure suggestivo, ma è anche massacrante!) con un electro dai suoni stratificati e i synth taglienti, con incursioni nel passato remoto della carriera di Robotnick, ricco di momenti oggi attuali più che mai. Un beat trascinante cui è impossibile resistere. Una lezione di stile. Addio Musica d’Alta Quota. Ritenta, sarai più fortunata.
Autore: Daniele Lama
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