Chiese un posto per sistemarsi, un posto dove potesse rannicchiarsi e farsi prendere dal panico, inteso come completo abbandono agli stimoli che s’impadronivano dell’ambiente. Pensava ai meccanismi totalizzanti di certe esperienze. Nessuno lo guardò male, nessuno commentò quel modo imprevisto, così fuori dalla norma. Era un concerto, non un corso di yoga. Un concerto, con stimoli diversi, come vibrazioni fisiche e percezioni, con l’udito e l’epitelio raccordati perfettamente, a capo chino, in posizione fetale. Era il consiglio da consegnare, scritto su di un piccolo pezzo di carta, a uno qualunque degli ascoltatori, e poi, poco alla volta, a tutti gli altri, disseminati nello spazio disponibile. C’è qualcuno che lo ha pensato? Si, e ne ho le prove. Me lo hanno confidato.
Un gruppo non enorme ma interessato di astanti ha potuto raccogliere gli stimoli scagliati dal palco da questi amici di Sheffield, 65 days of static: loro, gli spettatori, hanno replicato a largo raggio, con espressioni concentrate e al tempo disperse lungo il perimetro del palco, liberando gli occhi senza riflettere. L’ensemble si dimenava accanito, liberando movimenti potenti e liberi. Occhi bassi e concentrazione, strategia d’attacco, col tema individuato: liberiamoci. Il perimetro del palco era un punto nevralgico, con quattro raccordi che cercavano il climax lasciando gravitare il suono: angoli in movimento che disponevano gli attacchi facendoli convergere con una precisione che lasciava dietro di sé labili pelle d’oca e sensazioni di passione sparsa. Chitarre, non troppo aguzze ma disegnate con un calibro robusto e dinamico. Basso impetuoso, flessibile, preciso. E batteria scandita, cornucopia di stacchi e introduzioni vibranti. Il tempo dell’elettronica, che questi 65 giorni lasciavano sperare, viveva on stage in regime più relegato, nonostante la partecipazione di effettistiche e sintetismi. Ho perso il senno diverse volte, senza preoccuparmi di ritrovarlo sulla luna: comunisti, pacifisti, naturalisti, spiegavano messaggi francamente così universali da farsi ritrarre meglio dai suoni.
Le parole toccano a queste riga, e non costituiscono altro che un commento strutturato come un breve diario. Dimentico volutamente dettagli trascurabili. Gli amici sono di Sheffield, e riescono a ricordare paesaggi da sogno uguali alle immagini sullo sfondo. Sono influenzati da radiohead, mogwai, aphex twin, godspeed you black emperor e altri ancora. Somigliano ad una macchina da guerra emotiva. Queste sono soltanto chiacchiere. Agli assenti, per le prossime volte, raccomando di effettuare l’imprevisto come fosse un’immersione, facendosi circondare fino a fluttuare in un nuovo stato, con l’aiuto della musica. Soprattutto non bisogna temere le posizioni tipiche di certi stati di pace. Rannicchiatevi, e concentrate dentro il buco che custodite gli spazi di questa musica. Non provate a contare come un metronomo, o a raccogliere sterili spunti di riflessione, critiche d’accatto. Cercate un punto d’ascolto, abbassate la testa e lasciatevi accompagnare. Vi sveglierete pieni.
Autore: Alfonso Tramontano Guerritore
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