Nessun altro prima di Sydney Pollack aveva messo piede al palazzo dell’Onu, come regista s’intende. E il placet che gli è stato consentito ha dato un’impronta particolare al suo film “The Interpreter”, ne ha messo in luce l’aspetto che va oltre la mera cifra scenografica. La storia dell’interprete Silvia Broome, che ha il volto della favolosa Nicole Kidman, coinvolta per puro caso in un complotto contro il dittatore africano Edmond Zuwanie. La sua colpa è quella di aver appreso fortuitamente alcuni messaggi riguardanti un omicidio politico, espressi in una lingua misconosciuta che solo lei e pochi altri possono comprendere. A stabilire se è una bugiarda o meno ci sarà Tobin Keller, uno Sean Penn in ottima forma che riesce a destreggiarsi egregiamente nel ruolo di un agente Fbi afflitto dalla recente perdita della moglie. Questo lutto lo rende un personaggio dimidiato, diviso tra vulnerabilità emotiva e la freddezza calcolatrice dell’agente federale pronto a tutto pur di strappare notizie importanti. Il vero dilemma del film non è scoprire la verità che si trova dietro la trama ben congegnata, perchè, pur essendo in primo piano il caso politico, è il rapporto tra l’indiziata e il garante dell’ordine costituito a brandire l’attenzione del pubblico. Si aspetta di comprendere realmente se per Keller questa è una pratica da archiviare al più presto o una vicenda umana che lo coinvolge. Pollack non infarcisce il rapporto con implicazione sessuali, anzi le sfugge riuscendo a consegnare intatte le sfumature delle performance dei due premi oscar. La Kidman non ha bisogno di mostrare le sue procaci armi di seduzione per risultare attraente e intensa, le basta un buon copione e un partner adatto con cui duettare per dare forma ad un personaggio che combatte e rivendica le sue origini culturali. Anche Penn riesce a convincere, ma è soprattutto quando i due si trovano a confronto che il film inizia a girare secondo un preciso meccanismo, un misto tra suspense, scene d’azione e una velata tragicità esistenziale. Il continuo riferimento al Matobo, fantomatico stato che racchiude la difficile situazione socio-politica del continente africano, è il leit motiv attorno al quale gravita la sceneggiatura. L’incontro tra culture diverse, la tolleranza e la diplomazia sono altre tematiche di fondo affrontate non senza alcuni luoghi comuni. Il palazzo dell’Onu corrisponde a un ordine semiotico ben preciso che rappresenta il mondo evoluto e civilizzato, spesso inficiato dalla macchinosa prassi burocratica. Il tentato omicidio deve essere scongiurato anche perchè l’Onu non può essere teatro di violenza, sarebbe una profanazione, un atto di empietà verso il mondo moderno. La pellicola accusa però qualche smagliatura quando l’interprete Broome ribadisce di credere nei rapporti internazionali tra stati, una sicurezza un po’ troppo utopistica perchè forse il Terzo mondo avrebbe bisogno di un’assistenza che va oltre i buoni propositi di un consesso politico. La levatura del film viene rinfrancata dalla voglia di Tobin Keller, in qualche modo ambasciatore del mondo occidentale, di riuscire a carpire qualche aspetto della prismatica cultura africana. Il linguaggio non è solo comunicazione, ma veicolo di un messaggio di tolleranza.
Autore: Roberto Urbani