Molti, a sentire il bollettino “da amici al bar” di questo film, hanno parlato in senso negativo di intreccio complicato. Macchè. “Babel” è al contrario, in senso positivo, meccanicamente lineare; a paragone una partita a Resident Evil è molto molto più complessa. Lo scorrimento è assicurato dalla ripartizione in blocchi stagni tra episodi – ambientati in tre angoli del mondo, – che lasciano aperto un varco con un piccolo tubicino narrativo utile a trasferire benzina da una storia all’altra.
Una Babele disaggregata eppure diluita in un unico fiume di sofferenza. Insomma, di intrecci sul grande schermo se ne sono affrontati ben altri (vi dicono niente i gialli di Park Chan-wook, il regista della “Vendetta”, o le epopee di Altman, che ci ha lasciato qualche settimana fa?).
Babel è una pellicola fenomenica prodotta da distinguibilissime cause causate. altro che complicato. “Funziona” così: la vicenda marocchina dà il “la” a quella messicana mentre il racconto giapponese viaggia in apparenza da sé quando, in effetti, è l’innesco del butterfly effect, cioè di quel piccolo gesto che può avere conseguenze impensabili e pazzescamente ingigantite in un’altra parte del mondo.
Un’ora e mezza elettrica, col fiato sospeso. Poi, per i restanti 45 minuti il fiato flette verso la normalità.
Scrive la sceneggiatura e gira il talentuoso prestigiatore di “Amores Perros”, regalandosi un cast di pavoni (Brad Pitt, Cate Blanchett, Bernal) e una sorda atmosfera thriller. In alcuni frangenti importanti si macchia del peccato di gola: indulge al godimento della scrittura filmica, della posa in più, del dettaglio inessenziale e narciso, della taumaturgia sonora, annullando a volte quanto era riuscito a costruire in precedenza con spietata nettezza. E’ questo il piombo che appesantisce Babel, che gli impedisce di farsi capolavoro.
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