La protagonista di questa storia è una ragazza campione presa tra quelli che nel 2003 avevano circa sedici anni e che in pieno liceo s’erano appassionati alle chitarrine indie-rock, alle dancing shoes e al sound un po’ vintage delle sale da ballo dei diggeiset pubblicizzati via myspace.
Insomma succede che questa ragazza aspetta per anni quattro circa l’uscita del nuovo album della band capostipite del genere/rivelazione della sua meglio gioventù (che di seguito identificheremo come the Strokes); succede che l’album esce ed è così così ma comunque si tratta proprio degli Strokes e dopo qualche mese fissano anche la data per un live, uno solo, che si sarebbe tenuto a Milano in estate.
La nostra protagonista si reca al primo punto vendita ticket:one e acquisisce il magico biglietto. Sono sei mesi circa di anticipo e allora lo fa tenere ad un’amica, per paura di perderlo. I sei mesi passano e la ragazza si rende pure conto che se quel giorno tanto atteso non fosse esistito, lei sarebbe stata muta per tutto l’inverno, avendo parlato solo del grande avvento. Poi, più il giorno del concerto si avvicina, più si fanno palesi strani presagi: aumentano i nomi delle band previste nella line up del concerto. E occhei. In effetti si tratta di un festival, il Flippaut, che si è sempre fatto a Bologna, ma quest’anno nessuno capisce perché si debba fare a Milano. Però. Questi possono anche non essere fatti nostri. E quindi: Elizabeth, Dan Black, Glasvegas, Verdena, Chromeo. E gli Strokes. Poi succede che all’improvviso la location non è più Milano, ma un paesuccio che tra parentesi fa PV, il che vuol dire che non è neanche più Milano, ma Pavia. Tanti dicono “che bello. Una location bellissima.”; troppi altri dicono “mah”.
In ogni caso non ce la faccio più a fingere indifferenza, e vengo allo scoperto. Voglio dire le cose come stanno: la ragazza campione trattasi di me. Il giorno esatto della partenza, un amico che ci sta dentro, a questo mondo di concerti e di backstage mi chiama e mi augura una buona trasferta, mi dice goditi il concerto, che sarà molto intimo. Gli dico che intendi. Mi dice che non hanno venduto quasi nulla in prevendita e quindi hanno fatto il cambio location e tutto il resto. Io comunque parto felice perché la parola intimo associata agli Strokes mi fa pensare alle belle foto di Fab Moretti, ma le pieghe di questa storia non volgono verso quel tipo di intimità.
La piazza del Castello di Vigevano è un incrocio tra un antico borgo medievale ed Euro Disney. Si accede attraverso uno scalone che ti immette in un prato immenso che profuma di grill ed è più pieno di zanzare che di gente. Tant’è che insieme alla birra alla spina spillano il Vape in quantità. Lo notano anche i Glasvegas, che sul palco non fanno altro che lamentarsi degli insetti e del caldo. James, il cantante, si sente particolarmente simpatico, e alterna battute sui suoi jeans troppo stretti a tentativi di coverizzare gli Strokes. L’acustica pare perfetta, perfino loro sembrano una band niente male, ma si rendono conto che non c’è storia: il pubblico, per quanto esiguo, è veramente tutto per la band di Casablancas e compagni, tanto che appena si accennano le prime note di una Last Nite made in Glasgow i cori si alzano come nelle migliori finali di scudetto. Tra una band e l’altra, a fomentare l’ambiente, un “diggeiset” nostalgico degli anni zero: dopo Franz Ferdinand, Kaiser Chiefs, Ting Things, Arctic Monkeys, ci pensano i Verdena ad atterrare gli animi con il senso precario ed oppressivo della vita. Un ottimo live, perfino suonato con il volto verso il pubblico, i brani tratti per la maggior parte dall’ultimo album della band, che dimostra veramente di essere cresciuta, non solo in studio, ma anche nelle performance. Dopo i Verdena, i Chromeo: la band elettrofunk rivelazione degli ultimi anni, che reinventa la discomusic nell’era del digitale. Sul programma comunque c’era scritto che alle 22:45 avrebbero suonato gli Strokes, e in effetti sul trono del Castello di Vigevano regna la puntualità: alle undici menunquarto spaccate Julian Casablancas apre la fila indiana seguito da Hammond e gli altri, dirigendosi verso il palco. “Ciao Italia, Berlusconi” dice, leggermente in sovrappeso imbacuccato nell’irrinunciabile giubbino di pelle. Attaccano subito con New York City Cops, e non c’è storia: la piazza, improvvisamente, sembra gremita di corpi e di grida. Tutti hanno di nuovo sedici anni. A seguire the Modern Age, Reptilia, poi il singolone del nuovo album, Under cover of Darkness. Ma qualcosa va storto. Comincia a saltare l’impianto di amplificazione. Una volta, due volte, tre volte. Con pause più o meno lunghe. Quattro volte. L’imbarazzo di Hammond che si siede alla base del palco, le gambe penzoloni, Nikolai che tenta di rianimare la sua chitarra, e ci riesce sulle note accennate di Walk on the Wild Side. Il concerto riprende a singhiozzi: Is this it, Life is Simple in the Moonlight, Whatever Happened?, You’re so right, Someday. Poi di nuovo l’impianto che salta. Julian si scusa con i presenti. Tutto questo è veramente troppo da sopportare, per pubblico e band. Chiudono con Take it or Leave it. Vanno via. E’ mezzanotte meno un quarto. Nessun rientro sul palco, nessun saluto ai fan, oltre le transenne laterali.
“Amarezza” non è la parola esatta, ma è la prima che mi viene in mente. Attese disilluse, pellegrinaggi abortiti. I fan sono palesemente delusi, ma orgogliosi del comportamento di una band che avrebbe potuto smettere di suonare al primo problema tecnico, e invece ha proseguito. E per quel poco che sono riusciti a fare, questi Strokes, sono stati perfetti.
La sola cosa che resta da dire è che l’organizzazione avrebbe potuto chiamare qualche band in meno e spendere un po’ più di soldi per assicurarsi la riuscita di un live per il quale- molto probabilmente- dovremo attendere altri cinque anni. Nel migliore dei casi.
Autore: Olga Campofreda
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