Dopo un album come Fortress non c’era di certo bisogno di conferme al fatto che gli Alter Bridge fossero la più grande ed interessante realtà hard rock in giro, eppure, come per suggellare un patto stretto con i fan italiani e di tutto il mondo, il concerto di Roma tenutesi all’Atlantico ha eletto la band americana ad un livello superiore di quello di semplice rock band, proliferando ormai uno zoccolo duro di ammiratori e appassionati che cresce sempre di più, complice l’ultimo capolavoro della band (e gli impegni extra di Myles Kennedy con Slash e di Mark Tremonti da solista e con la reunion dei Creed) che li ha consacrati a livello di rockstar dopo anni in cui i musicisti sono stati visti, soprattutto dalla critica americana, come i Creed con un nuovo cantante; fortunatamente in Europa il loro cammino verso la vetta dell’olimpo del rock è stato molto più semplice che in America dato che la fama dei Creed non è mai stata così grande come lo è oltreoceano. Nel live romano, gli Alter Bridge hanno sfilato, piegato e messo da parte gli abiti smessi e usati dei Creed e sono apparsi nella loro umiltà e nella loro grandezza brillando di luce propria, conquistata album dopo album, live dopo live con orgogliosa passione e sincera fatica.
Un ingorgo autostradale ha reso impossibile assistere allo show dei bravissimi e, fortunatamente, tanto celebrati Halestorm guidati da una eccezionale e grintosa Lzzy Hale che intimidisce per bravura e presenza scenica tantissimi colleghi e colleghe regalando da qualche anno infiammate performance a suon di sudore e sangue, per modo di dire; una delle principali promesse del rock americano, che alle 20:45 lascia il palco per dare spazio agli eroi della serata che alle 21:15 in punto calcano il palco esordendo con Addicted to Pain, primo singolo estratto dal nuovo Fortress, tra l’entusiasmo del pubblico e dei fan di ogni età presenti all’Atlantico, la maggior parte dei quali canta a memoria tutte le canzoni, segno di una fama, e di un amore e riconoscenza verso gli americani, sempre crescenti. Dopo i primi inevitabili problemi di acustica la band, conclusa White Knuckles, esplode letteralmente in Come to Life tra il boato del pubblico che genera i sorrisi a catena ai nostri che vengono letteralmente travolti dalla partecipazione collettiva, tanto quanto il pubblico dalla loro musica, con un Myles Kennedy impeccabile, padrone di una voce potentissima, perfetto equivalente musicale della chitarra di Mark Tremonti. A tal riguardo bisogna necessariamente precisare una cosa, Myles Kennedy, oltre ad essere un cantante eccezionale, è anche un musicista sorprendente, l’introduzione della nuova Cry of Achilles, così come molti assolo, ad esempio il primo di Blackbird, sono farina del suo sacco che egli suona magistralmente dal vivo in modo impeccabile, pulito, preciso e con un feeling immenso tale da sorprendere chiunque del suo talento che probabilmente verrà sempre sottovalutato come succede per ogni cantante e chitarrista talentuoso che suoni in una band con un virtuoso della chitarra (vedi Sammy Hagar con Van Halen).
Ghost of the Days Gone By, Water Rising scorrono adrenaliniche scandite da una sezione ritmica a dir poco perfetta, con il basso di Brian Marshall, muro sonoro spesso e inattaccabile, e le martellate di Scott Philips, finalmente un batterista preciso e tecnico che dal vivo picchia davvero sulle pelli e sul rullante, scivolando granitiche verso tre anthem della band (che finalmente possono essere definiti dei veri e propri classici del rock dell’ultimo decennio), tali Broken Wings, Metalingus e la celeberrima Blackbird, il cui assolo di ben 1 minuto e 19 secondi, oltrepassando quelli di Stairway to Heaven di Page ed Eruption di Van Halen è stato votato dalla rivista Guitarist nel febbraio 2011 come il migliore della storia della chitarra tra la sorpresa dei fan e lo sgomento dei detrattori.
La band, dopo Blackbird, scompare dal palco lasciando solo Myles Kennedy che inizia magistralmente a suonare e cantare la celebre Watch Over you, fin quando tra le urla di approvazione della folla appare una splendente Lzzy Hale sul palco a duettare con lui, regalando una di quelle performance che non potrà essere dimenticata da chi vi ha assistito personalmente; due voci immense, a creare armonia fra di loro, che esplodono in acuti devastanti su una tenera ballad vestita in sede live di fuoco e classe, in cui Lzzy Hale dà prova di una tecnica vocale impeccabile e di una sensibilità musicale fuori dal comune. Si riprendono le vesti hard and heavy con Farther than the Sun, la nuovissima e incandescente Lover, che nonostante sia stata pubblicata su disco meno di un mese fa viene cantata all’unisono dal palazzetto, Isolation da AB III e la indimenticabile hit Open Your Eyes, probabilmente il brano più conosciuto della band di Orlando. Con una prassi ormai consolidata da 50 anni di rock n’roll, si spengono le luci e i musicisti lasciano il palco per essere poi chiamati a gran voce dal pubblico e offrire un encore di tutto rispetto con la nuovissima, lunga e articolata Fortress, title track dell’ultimo capolavoro pubblicato questo ottobre (per chi avesse qualche dubbio o lacuna parliamo di quello che probabilmente con The Devil Put The Dinosaurs Here degli Alice in Chains è l’album rock di questo 2013) e la magnifica Rise Today, dove le coppiette alzano gli accendini e la band saluta il pubblico.
Scenografia quasi ridotta a zero se non per le luci, e poco dialogo con il pubblico: a Roma è stata solo la musica a parlare e a far spettacolo, fra l’entusiasmo di chi vi ha assistito e la stima e il rispetto inossidabili che la band di Orlando ispira ai suoi fan. Finalmente, gli Alter Bridge hanno intrapreso la via che li consacrerà a rockstar, spazzando via la pesante eredità dei Creed e oscurando quasi gli impegni da solista dei suoi componenti. La miglior band di quest’anno, eccezionale sull’album, devastante e strepitosa dal vivo.
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autore: Nicola Vitale