Alle 22 e 30 il Teatro Mediterraneo è già ormai gremito in ogni ordine di posti, le aspettative sono alte e un boato liberatorio saluta la band all’ingresso verso il palco, un vero e proprio cantiere edile.
I sei Einstürzende Neubauten attaccano con Die Wellen, carica di potenziale collerico, tesa e implosa, dal loro ultimo lavoro, Alles Wieder Offen, che viene eseguito quasi integralmente. Diciamolo subito: chi aspetta Feurio, Armenia o Halber Mensh ha sbagliato concerto, ma vale la pena chiarire per il prosieguo, che l’approdo – da Tabula Rasa, in poi – alla forma canzone, si è rivelato una svolta necessaria e coraggiosa, che oggi trova una sintesi magistrale per tecnica e pathos, fermo restando una raffinatezza estranea al livore espressionistico degli ‘80. Detto questo, i tedeschi non mostrano segni di cedimento, né punti deboli, né tantomeno autocompiacimento, come spesso si legge sulle riviste specializzate (e francamente non si capisce il motivo). Nagorny Karabach, speziata dall’e-bow di Jochen Arbeit e dalle spazzole (su cote rotante) di Rudi Moser, è uno stupendo esempio di quella sintesi di cui sopra. Let’s do it a dada deflagra tra proclami surrealisti e apoteosi percussiva, ammiccando alla disco-wave continentale, sorretta dal synth di Ash Wedneday. Weil Weil Weil è la nuova catena di montaggio targata EN. Una pioggia metallica di tubi di alluminio intrappolati e liberati da N. U. Unruh cadono a intervalli sul crescendo di Unvollstaendigkeit. Poi è la volta della plumbea Tagelang Weiss, tratta da Grundstuck (disco “fantasma” del 2005), con Moser alle tablas, e delle aperture di Von Wegen. Quindi tocca al passato prossimo di Silence is sexy: Sabrina smorza i toni e Die Befindlichkeit li riaccende. Si ritorna ad AWO con gli archi simulati di Susej e Ich Warte, in cui Alexander Hacke manda in loop un ukulele e il padrone di casa fa le presentazioni. I tubi idraulici percossi da Moser, come uno xilofono, caratterizzano, dopo due ore di concerto, la conclusiva, elegiaca Youme & Meyou. Pubblico in piedi e giù il cappello per salutare l’Arte Percussiva degli EN e le loro storie per niente ortodosse tra il musicista (artigiano), gli strumenti (arnesi) e la loro materia (plastica e metalli), che oltre ad avere un evidente impatto sonoro, hanno un evidente impatto visivo, e per questo le “canzoni” c’entrano fino a un certo punto. Un conto è ascoltare, ma ben altra cosa è vedere e ascoltare gli EN, e a questo proposito vale la pena ricordare a tutti che non è ancora nata la macchina elettronica che riesca a riprodurre quel che gli EN creano sul palco, sebbene in Germania si smanetti con perizia.. Anche il basso possente e radicale di Hacke, e spesso la chitarra di Arbeit – se si eccettuano le decorazioni dell’e-bow – hanno una funzione prevalentemente percussiva, che presenta due caratteristiche fondamentali: precisione e cadenza. Dunque, non dei suoni casuali, ma quei suoni, scelti tra mille altri possibili. Blixa Bargeld è il folle orchestratore – coi suoi ampi gesti, la maschera grottesca e il sibilo “vetricida” – e insieme il dittatore (di Chaplin), quando mima la marcia oppure scuote il capo e discute risentito coi colleghi, se le cose non filano – è per questo che riparte Nagorny Karabach – con la precisione dovuta. E cioè, la produzione di suoni (rumori), distinti e cadenzati, che giri a incastro, secondo le meccaniche di un ingranaggio perfetto: quello industriale, metafora e equivalenza della Macchina. Sarà pur vero che siamo in un’era post-industriale (intanto provate a spiegarlo ai cinesi, agli indiani o a Gorge W. Bush), ma la musica degli EN è ancora danza dell’Apocalisse, solo più sinuosa, atto del demolire come esorcismo collettivo, corrispondenza assoluta tra forma e contenuto, fiamma ossidrica che sigilla le angosce. E trapano che avvita e inchioda l’uomo (post)moderno alle sue responsabilità.
Autore: Fabio Astore
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