Non è che gli si sta tirando un po’ il terreno da sotto i piedi al povero Neil Young con la scusa degli anni che avanzano impietosi e – già che ci siamo – del recente ricovero in ospedale (passato indenne, per fortuna)? Questo il “peccato”, e si dica, per stavolta, pure il peccatore: Jason Molina, ieri Songs: Ohia, oggi Magnolia Electric Co. sulle “ricevute” rilasciate alla critica per il consenso tributatogli.
Meritatamente, possiamo dire. Da sempre Jason incarna la figura del musicista che i dischi riesce a farseli quando e come vuole – anche senza degenerare in patologie da “diarrea” creativa, quindi in enfatico narcisismo. Uno che sa, appunto, chi chiamare per suonare il violino (tanto per dire) a “quella” maniera, per dare alla chitarra “quel” feel in sede di missaggio, e che, prima di tutto ciò, sa cosa vuole e cosa tirerà fuori da se stesso per un determinato disco – che finisce per essere, qui più che altrove, un bollettino sullo stato delle cose dell’uomo Molina, oltre che dell’artista. Anche a costo di eccedere in meticolosità e tardare nel “recapito” di tale lavoro, come è capitato col brano con cui avrebbe dovuto contribuire al recente tribute album ai Black Sabbath: lui, vecchio metallaro in un altro dei suoi “sé”, ci teneva al punto da non esser mai contento di ciò che aveva per le mani (che appunto, pur con suo rammarico, non ha mai osato consegnato).
Ma torniamo ai “sé” coi quali Jason si è fatto conoscere. Nato come scarna e solitaria voce nel buio, Songs: Ohia si è via via evoluto in progetto catalizzatore di più musicisti – anche se più “braccio” che “mente” – fino a profilare il nuovo ruolo che Molina ha voluto oggi per sé: una voce-guida, sul sentiero che, a ritroso, riporta alle radici rurali dell’America, di quel “circle” che si vuole “unbroken”, ora e sempre. Un ruolo che accosta Molina ai grandi “pastori” del country – Seger, Fogerty, e appunto Neil Young – anche in virtù di una backing band che da “revolving” comincia ad essere più stabile-istituzionale, sì da fargli assecondare sempre meglio gli sviluppi della propria vicenda artistica, sempre più indirizzata, come nei nomi-numi citati, verso il sentire “epico” del country, ossia verso il risvolto civilizzatorio e culturale dell’avanzata dell’uomo bianco verso ovest. Epico nel senso che quella steel guitar lancinante, quella simbiosi tra melodia e voce (di Jason, ma anche della Jennie Benford) allarga la faccenda di folks e fattorie (che aveva caratterizzato il precedente album omonimo, più strutturato sul modello dell’orchestrina da festa di campagna) in un’epopea capace di segnare anche l’americano “urbanizzato”. Epico come un “Harvest” di Neil Young. Tanto, forse troppo. Ma andiamo avanti.
Altra cosa rispetto a tale sensazione di epicità (fortemente dipendente dalla suggestione che il sound riesce ad evocare) è il “tema”, decisamente più soggettivo, di “What Comes After the Blues”, che affonda nelle cause anziché negli effetti della transizione da un moniker a un altro: addio Chicago, welcome to Bloomington, Indiana, nella fattispecie. E non è musica – o meglio, “genere” – quel “blues” di cui al titolo, ma la malinconia, lo smarrimento che ogni cambiamento – bello o brutto – porterà sempre con sé perché quest’ultimo acquisti efficacia “dentro” oltre che fuori. “It was a hard time I come through / it’s made me thankful for the blues’ – canta Jason in ‘Leave the City’, neanche il più intimo e struggente degli episodi dell’album, benchè significativo di quanto appena detto. Se c’è un altro modo di cantare questi spleen, Jason saprà trovarli. Ora il tempo per lui sembra essere un altro, che Neil Young si sia o meno insinuato nella sua testa…
Autore: Bob Villani