Un nevoso sabato sera milanese di inizio dicembre, davanti al Transilvania Live non c’è anima viva, il fragile pubblico indie è tutto rintanato dentro. Ma non è sufficiente a riempirè più di metà locale, peccato. Sono le note di Nobody Move, Nobody Get Hurt a richiamarmi dentro. I We Are Scientists aprono il concerto e questo mi tranquillizza. Il gruppo principale sono i Wolf Parade. I brani presentati dal gruppo di Brooklin non si discostano visibilmente dall’emul-rock del singolo d’apertura. Stupisce il loro atteggiamento dimesso rispetto alla spavalda sicurezza che emanano attraverso i media, ma è giusto così. Ed ecco che dopo una breve pausa arrivano i canadesi (di Montreal; si, come gli Arcade Fire); sono in cinque, distinguo subito i due cantanti: Spencer Krug, che pare un grosso pallido bambino timido, si siede nella sua postazione composta da tre pianole, Dan Boeckner ha un’aspetto smunto e nevrotico, riassunto dal tatuaggio che porta sul braccio: un gatto nero in un momento di stizza (pare il marchio della Hellcat records, ndd). Arlen Thompson si dispone dietro l’ambaradam elettronico che poi giostrerà con tanta perizia per tutto il concerto. Il concerto si apre con You Are A Runner And I’m My Father Son, cantata da Krug, nella cui batteria pestata si percepisce subito l’influenza dei Modest Mouse (l’album è stato prodotto da Isaac Brock).
Fancy Claps è cantata in coro da tutto il gruppo mentre nella successiva It’a Curse alla parte vocale vi è Boeckner che a differenza di Krug, la cui voce sofferta ed obliqua è stata paragonata a quella del Bowie periodo berlinese, ha un timbro rauco e veloce più “garage rock” (pensate a un Barat o a un Borrel). E anche la struttura di alcune canzoni si avvicina al genere, appunto, di Libertines e Razorlight (o Hot Hot Heat, Futureheads), ma evitando l’appiattimento grazie ad un’intensità travolgente, che, se si avvertiva già nell’album Apologies To The Queen Mary, qui è espressa anche corporalmente dall’irrefrenabile dimenarsi dei nostri che, col non trascurabile ausilio della parte elettronica creano un’atmosfera frenetica ed irripetibile. Spuntano
belle canzoni che non avevo sentito nell’album a confermare il grande momento del gruppo e si continua con altre due canzoni veloci come We Built Another World e This Heart Is On Fire. Finalmente arriva Same Ghost Every Night, inno visionario e struggente; la voce di Krug diventa una preghiera senza dio dove il theremin sibila come il vento e il secondo chitarrista incomincia a usare sonagli, tamburello, e campanelle di ogni sorta per poi tornare ad accompagnare la chitarra principale in un refrain che ha dell’epico. La successiva I’ll Believe In Everything è una marcia impetuosa, scandita da una batteria scarnissima e da chitarre sincopate e stridenti, dove la voce di Krug si innalza verso picchi vertiginosi. Come quando canta “oh look at the trees and look at my face and look at a place far away from here” offrendo il momento in assoluto più alto di un album straordinario. Un tuffo al cuore. A questo punto si ritirano dal palco. Insieme a tutto il resto del pubblico continuo ad applaudire senza sosta pretendendo ancora; un’attesa che pare interminabile durante la quale nessuno smette di battere le mani. Ed ecco che nel buio ricompaiono le loro figure e si sente partire Dinner Bells. E’ la canzone perfetta per salutarci; per darci, con un colpo di grazia, una dolcissima buonanotte, sottoforma di suite ariosa fatta di sonici feedback di chitarra, a creare ponti sonori avvolgenti e interminabili, tra cantilene elettroniche malinconicissime, e, ancora una volta, la voce, sublime, di Krug. I Wolf Parade trasmettono una passione inesauribile (passione nel senso “cristiano” di dolore, o, meglio, catarsi).
Autore: Sebastian Marano
www.myspace.com/wearescientists | www.myspace.com/wolfparade