E ddài che ce li meritiamo un po’ di sballo, un po’ di nonsense, un po’ di bisboccia, e un po’ di vaff… a quegli show che sembrano ricamati ad arte per radunare sedicenti maitre-a-pensier (vaff… anche a loro) che per darsi un tono si astengono da ogni commento/sensazione intermedia (“memorabile!” vs “merdosissimo!”: questo gli sentiremo dire prima del consueto pistolotto para-critico) in relazione a ciò a cui assistono. Stasera ci si diverte, si balla, si fa anche un po’ i fessi, altro che intellettuale scrutare questo o quel messaggio.
Punk-rock? Esplicita demenzialità? Siamo più o meno a metà strada, sui sentieri ambigui e costellati di false indicazioni di quel synth-punk-dance-wave che può diventare tanto il tormentone delle nostre velleità di giovanile, quasi nostalgico disimpegno quanto una no-music fittizia e anche un po’ fighetta meritevole di tirarsi dietro il massimo del disappunto. I Numbers sono così: prendere o lasciare, sudare o scappare, svenarsi dal facile divertimento o menar bottiglie sul palco. Un rischio grosso così, innanzitutto per chi ne organizza un concerto.
E d’altra parte, quanti sono veramente disposti a vedere per un quarto d’ora la sola Dynasty (avete letto bene, si chiama, o almeno si fa chiamare, proprio così), amica in mise sguaiatamente improbabile dei tre di San Francisco, a fare i labiali di una base parlata in goffo italo-americano e, quando entrano in gioco ostiche basi di synth, a starnazzare in maniera convulsa mentre si agita meccanicamente come una sorta di mutante modella-robot? Si ride, non proprio compiaciuti, ma in un certo senso ci si prepara adeguatamente alla filosofia antinomica e anche volutamente antipatica (si definiscono “borghesi viziati” o roba del genere) di una band che, per intenderci, incide per quella gabbia di matti che è la Tigerbeat6 (l’etichetta col gattaccio come logo e il codice delle releases che inizia, coerentemente, con “meow”).
Finalmente ci salgono sul palco la bruna e lunghissima Indra Dunis (vocalist nonchè batterista) e i biondi Dave Broekema (chitarrista a metà, come fisionomia, tra Tim Gane e Chris Leo) ed Eric Landmark (tastierista, fisionomia da nerd vita natural durante). Facce da giovani bravi ragazzi, comunque meno splatter di quanto ci si potesse attendere (Indra, soprattutto, l’avrei detta più “fatale”: truccata, perversa, cattiva). E cominciano a seminare quella schizofrenia che i loro finora scarsi lasciti sonori (il debut album, “Numbers: Life”, fa 19 minuti sul timer – non ci aspettiamo che giusto un po’ di più dal concerto) avevano preannunciato. Peraltro c’è un album nuovo (“In My Mind All the Time”) da presentare. Ma sarà questione di mezz’ora. Basta? I pezzi bene o male sono quelli, e ‘I’m Shy’ o ‘We Like Having These Things’ (il loro brano più “completo” e riuscito) non è che li si possa proporre due o tre volte per allungare il brodo (ma perché, ci saremmo forse formalizzati più di tanto?).
Domanda: ci si diverte? Sì, accidenti. E’ il loro gioco, e non bisogna far altro che starci, altrimenti “starci” vale per la propria casa o altro più gradito luogo. I Numbers urlano e accelerano pezzi che già arrivano a malapena al minuto? Ballare, più scomposti che mai. I Numbers eliminano il sonoro e mimano paradossalmente le sole movenze del suonare? Battere le mani, anche per due minuti filati. I Numbers ridono in faccia ai presenti? Prenderli per il culo, senza offendere ma con ironia. E poi siamo poco più che quattro gatti, vuoi vedere che non ci scappa anche l’isolata e assurda intrusione vocale di qualcuno dei presenti? Ringraziassero piuttosto che questo qualcuno non sia montato sul palco a far vedere chi è il più deficiente. Se è una volta ogni tanto, un concerto del genere va anche meglio di un concerto “standard”. Bis, per qualche minuto. Sono ancora tutti in sala? Più o meno. “We Like Having These Bands”…
Autore: Bob Villani