Questa sera all’Estragon suonerà un gruppo di Seattle, sotto contratto con la SubPop e con un armadio pieno zeppo di camicie di flanella. Siamo tutti consapevoli che quello a cui stiamo per assistere è un’ucronìa, il chiaro segno di una frattura spazio-temporale, come se fossimo appena scesi dalla nostra sfavillante DeLorian, con il timer impostato sull’anno di grazia 1968.
1968 certo, nessun errore storiografico né di battitura, perché nonostante qualche chiaro elemento in comune con quella che è stata l’ultima rivoluzione musical/antropologica, i Fleet Foxes sono ciò che di più lontano ci possa essere dalgrunge e da tutta la sua poetica.
Il colpo d’occhio che ci accoglie all’entrata è di quelli consolatori, vedere l’Estragon strapieno riscalda il cuore, ma soprattutto il corpo e, considerando la temperatura esterna di questa serata bolognese, la cosa non è per niente secondaria.
Le Luci sono ancora soffuse, sul fondo del palcoscenico prendono vita immagini che sembrano uscite dalla mente di Aldous Huxley, l’atmosfera è sufficientemente sospesa tra l’indie e il post-hippie quando alle 22 in punto, con le prime note di The Plains/Bitter Dancer ha inizio il concerto, e l’impressione immediata è quella di essere di fronte ad un vero e proprio rito iniziatico, quasi salvifico quando le voci dei sei barboni/santoni sul palco, con le loro armonie perfette e cristalline, rapiscono una ad una le anime ditutti noi.
E’ incredibile quanto sia solenne e solare la resa vocale di ogni singolo episodio, da Mikonos (dallo splendido Ep Sun Giant) a English House, passando da Sim Sala Bim per arrivare all’acclamatissima White Winter Hymnal, la sensazione è quella di essere letteralmente attraversati da ogni singola nota, di essere testimoni di un’apocalisse bucolica in salsa folk-rock.
Non è musica quella che ci colpisce, non ci sono persone che suonano sul quel palco, ma è magia e fiaba e polvere di stelle quello che aleggia nell’aria e riempie questo luogo rendendolo ieratico e sacro, trasformando un tendone in una cattedrale e un concerto in una messa laica e visionaria. A metà concerto Lorelai, nuovo singolo lanciato proprio in questi mesi dall’ultimo “Helpnessless blues” è un inno gioioso e soave, che si allontana leggermente dai tipici territori folk-rock per approdare alle soleggiate e candide armonie vocali, gonfie come risacche, del pop di Brian Wilson e dei suoi Beach Boys. E’ il fantasma di David Crosby invece, quello che guida gli arpeggi ipnotici di Robin Pecknold e soci, un “deja vu” (proprio come l’album del 1970 di CS&N) che esplode durante l’esecuzione di The Shrine/An Argument, regalandoci dieci minuti di autentico delirio musicale, una jam fricchettona che nasce folk, si trasforma in una liturgia “a cappella” e termina in un crescendo noise e psichedelico, sulle note dissonanti del sax di Morgan Henderson.
Potrebbe bastare tutto ciò a renderci felici e spensierati per i prossimi due mesi, per tornare a casa eterei come ninfee e sposare la madre terra in una notte di plenilunio come rifioriti “figli-dei-fiori”, ma c’è ancora tempo per l’inedita “I Let You” -intensa ballata che sembra essere la gemella sdrammatizzata di “Helpless” di Neil Young –
e l’encore finale, con l’accoppiata Blue Ridge Mountain e Helpnessless Blues , sorta di catalogoprimavera-estate di emozioni e visioni mitologiche, una pennellata di melodie sognanti e speziate, indirizzate alle nostre vite sempre troppo digitali e meccanizzate.
Finisce così questo intenso viaggio rivelatore, lasciandoci addosso un profumo di campagna e di colline fiorite, di boschi incontaminati e di spiagge bianche e assolate, ed è il silenzio l’ultimo suono che “ascoltiamo” prima di abbandonare l’Estragon, un silenzio irreale e contagioso, come se l’unica reazione possibile a tanta magia fosse il rispetto per ogni singola nota che ci ha colpito.
Autore: Alfonso Posillipo
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