Ricordate Manitoba? Anzi, no, vi ricordate di Handsome Dick Manitoba, cantante e frontman dei Dictators, germogliata nei primordi del punk newyorkese ma presto spazzata via dalle centinaia di altre band susseguitesi? No? Male. Anzi, bene, perchè vuol dire che non vi era saltata la mosca al naso se Dan Snaith si era scelto il nome dello stato canadese come moniker. A Handsome Dick invece sì, siffatta “omonimia” aveva arrecato parecchio dispiacere e smarrimento, evidentemente più di quanto i suoi creditori già non facessero, e allora perchè non intimorire un ragazzino allergico a tribunali e controversie legali per farsi, magari, anche un po’ di pubblicità, incurante tanto del preesistente dato geografico (per il quale i titolari originari sarebbero i nativi, neanche il governo) quanto dei ceffoni che per la restante parte del moniker meriterebbe?
Triste storia, ne converrete. Lodevole, invece, la condotta di Dan: benchè arrendevole, ha preferito evitar beghe avvocatizie e cancellieristiche, disfacendosi con apparente nonchalance del vecchio moniker e scegliendosene un altro altrettanto legato al suo Paese di provenienza (di caribù, parente della renna, ne trovate a branchi nella tundra nordamericana). Aggiungete un buon lavoro di comunicazione per fugare il rischio di una perdita di avviamento (già due gli album, e di successo, per Dan a nome Manitoba) e la macchina è pronta a ripartire.
L’iniziale ‘Yeti’ ci accoglie in quella tiepida e solare tempesta pop-folk-psichedelica a propulsione elettronica che aveva caratterizzato il precedente “Up in Flames”: cambio di ragione sociale, d’accordo, ma siamo nuovamente lì dove ci eravamo lasciati. Ma non è una fotocopia del precedente “Up in Flames” quella che ci accingiamo ad ascoltare: l’utilizzo di strumenti “organici”, oggetto della svolta artistica di Dan nel suddetto album, fa da battistrada per canzoni degne di tale codificazione più che di jam, rendendo “The Milk of Human Kindness” un lavoro equamente impegnato su più territori. Beninteso, la componente dreamy si è tutt’altro che dissolta, come testimoniano il kraut-rock di ‘A Final Warning’, gli sprazzi percussivi di ‘Brahmini Kite’, l’uptempo spacey in vena Stereolab della conclusiva ‘Barnowl’, più alcune brevi schegge poste qua e là a cerniera dei brani, laddove in ‘Load Leopard’ e ‘Pelican Narrows’ si fa strada una componente electro-hip hop che richiama alla mente certe contaminazioni in area “classica” del primo DJ Shadow.
Ma, come detto, è il concetto di “canzone” – lambita dalla voce di Dan, resa ovattata e distante dal mixaggio – che sembra affermarsi meglio, pur comunque battuta da qualche spiffero psych: ‘Bees’ decolla su una rampa blues-rock ricca di bassi per librarsi nell’arcobaleno di un’orchestrazione sorretta dai fiati, ‘Hello Hammerheads’ affonda in atmosfere intimiste e allucinate degne del disorientato e sghembo Barrett solista (chi altri inabissava la voce in tonalità così basse?). Resta da vedere cosa s’inventerà ora Handsome Dick…
Autore: Bob Villani