Se qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei visto un concerto di un ex membro dei Kyuss (ma anche collaboratore di Fu-Manchu e partecipante alle Desert Session) seduto ad un tavolino mentre i miei due “bravi” che mi accompagnano trangugiano pizza e supplì, avrei sorriso. Si, perché a fronte di un membro di una band che mi ha sollevato più di un’emozione mi sarei forse visto a petto nudo, sudato e sollevato da centinaia di braccia immaginarie e/o headbangineggiante e posseduto da ufomammutiani demoni alcoolici e/o ancora, in un improbabile trip alla “Castaneda”, in extracorporeo viaggio tra cactus e peyotl, in lande desolate e ostili tra California e New Mexico. Ed invece niente di tutto questo perché siamo in un posto in cui ci si viene solo per prendere dei voli charter o per raggiungere Stazione Birra percorrendo un dedalo di stradine (quello si che ha del trip) che lasciano intuire le campagne dietro le case, appena fuori Roma. Quando arrivano sul palco i Bros sembra di avere Carlos Santana di fronte. Si, perché Brant Bjork e la sua musica incarnano oggi ciò che resta dell’era tardo-sixties americana, quella che stava salutando il sogno colorato di Woodstock ed entrava nella stagione della violenza elettrica di Altamont: il blues e la psichedelia sempre presente nel suo DNA aveva ormai qualcosa di irrimediabilmente luciferino. Brant Bjork, da pesante picchiatore di pelli che fu nei Kyuss, ha scelto una carriera semplicemente diversa da quella dei suoi amici: lontano dagli accecanti riflettori dei Queens of The Stoneage di Josh Homme come lontano dalla mania iperproduttiva (benchè per molti versi benedetta) di John Garcia (Unida, Slow Burn, Hermano) ma anche distante dall’ attitudine tossica di Nick Oliveri. Bisogna quindi abbandonare i topi che hanno caratterizzato tutti i movimenti che dalla fine degli anni ’80 hanno trovato riparo sotto l’ombrello dello stoner rock, dell’acid-heavy-psych, del cosmic doom o di come cavolo lo si voglia chiamare; bisogna dimenticare i bassi che ti scavano lo stomaco, i Black Sabbath e i Blue Cheer: Brant Bjork e i Bros viaggiano a vele spiegate verso il rock classico che fu appunto di Santana, dei Cream, di Jimi Hendrix. E in questo si dimostra anche un discreto chitarrista. E se proprio si fatica ad allontanarsi dallo stoner, allora bisogna pensarlo morbido, caldo, tendente a lunghe jam e code strumentali e molto vicino al Messico (a parte il batterista Mike Peffer, un angioletto barocco con boccoli biondi e occhi azzurri e – scopriremo dopo – una gamba rotta, Brant, Cortez il chitarrista e Dylan Roche, basso rivolto alle casse e spalle a noi per tutto il concerto, non possono non avere almeno una nonna messicana a giudicare dai colori e dai lineamenti dei chicos). La componente ipnotica è sempre molto presente, nella ripetizione a libitum di riff meccanici che non hanno bisogno dello sconquasso da ultradistorsione per raggiungere l’assuefazione. Una lunga cavalcata di quasi due ore seduti sul chopper di Peter Fonda/Capitan America e che finisce nel Titty Twister (il bar per camionisti nel deserto del film “Dal Tramonto All’Alba”), dove lì seduti ad ascoltare non i Tito & Tarantula ma Brant Bjork & Bros, tengo d’occhio i miei compagni che non si sa mai..dovessero trasformarsi in vampiri, visto che oggi è anche 06/06/06
Autore: A.Giulio Magliulo
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