Questo dei fiorentini To The Ansaphone è un disco straordinario. Non sto esagerando, non c’è altro aggettivo per descrivere un esordio di tale livello.
L’attacco è da infarto, con la claudicante “Basel” (Martin Rev e Ian Curtis seduti allo stesso tavolo?) subito bissata dalla veemenza claustrofobica di “Oscure desire of bourgeoise”.
Ma è in “The subtle trap of looking back” che i To The Ansaphone toccano vette per altri inarrivabili, alternando algidi passaggi narrativi a frenetici strappi noise che trascinano alla deriva il cantato epilettico di Mirko.
Ad un uso calibrato dell’elettronica e delle tastiere fa sempre da contraltare una chitarra nervosa, mentre spetta alle propulsioni del basso e della batteria fungere da collante innescando movimenti dubbati o accenni funk. Azzeccatissimi pure gli inserimenti del sax, che ronza in “Sambasa super modern”, vaga nel labirinto di “Fouir de la realite ce n’est pas de liberte” ed infine si “contorce” (colto il riferimento?) nel balletto free di “Tel Aviv”.
Il punto di forza dei To The Ansaphone sta proprio nella struttura aperta dei loro brani, suscettibili di infinite variazioni, non estranei a momenti di pura sperimentazione (“Sur grader”) e così perfettamente equilibrati nella loro dinamica complessità da trasformare il ricco background musicale della band in materia viva, pulsante. Il superbo strumentale “La discipula del velocimetro” è il miglior congedo possibile per ricordarsi che i To The Ansaphone non sono “gli eredi dei Gang Of Four” inventati da qualche etichetta smaliziata né sono “gli El Guapo italiani” scoperti da qualche manager in carriera.
I To The Ansaphone sono i “To The Ansaphone”.
E di questi tempi non è pleonastico precisarlo, lo sapete bene anche voi.
Autore: Guido Gambacorta