Cosa c’è alla base della decisione di andare a vedere un concerto (oddio, ora riattacca con la sega mentale di turno…)? “Varie ed eventuali” ragioni, che bene o male conoscete. Meglio essere lì da fans o da curiosi? E il promoter, incassi a parte, è contento di vedervi lì perché non avete niente di meglio da fare? Ad ogni modo ci sono concerti che vengono visti necessariamente per curiosità. Quando sul palco tocca a band che che hanno storia (specie se decisamente singolare) da vendere e raccontare, ma che nessuno assolutamente conosce perché fuori da qualsiasi circuito promozionale (e non è anche questo singolare?).
Eccoci al dunque, allora. I Sabot sono appena in due, basso e batteria (ciò che accresce ulteriormente la curiosità: cosa cacchio saranno capaci di fare con così poco?!). Christopher Rankin (basso) e Hilary Binder (batteria), marito e moglie. Occhialuto e nerd lui, pallida rasata e squatter lei. 15 anni di attività alle spalle. Nativi di San Francisco (cool, come sempre), da un po’ vivono in Repubblica Ceca (quand’è che si potrà cominciare a chiamarla “Cechia”, che mi piace tanto?), in un posto chiamato Cesta sbrigativamente descrivibile come una sorta di comune ma che, più appropriatamente, si presenta come “cultural exchange international non-profit center”. E se questo non basta, autori di tour impossibili in Asia centro-meridionale, lungo quella che è conosciuta come “la via della seta”. Occorre altro per incuriosirvi? O vi muovete solo in caso di assoluta certezza su gradimento e notorietà?
Oltretutto come opening-act c’è un validissimo gruppo romano. Di quelli che a Napoli, onestamente, servirebbero per rendere la scena (brrr!) un po’ più sapida: funk-speed-metal-core indiavolato, serratissimo, fors’anche troppo carente di attimi di respiro per chi è in sala. Sono in tre, c/b/b come si conviene. Il batterista si concede il lusso di un cambio di tempo dietro l’altro, con assoluta padronanza e sincronia, benchè sia più o meno alla prima dentizione. Se ha 20 anni se li porta benissimo, e anche gli altri due, benchè esteticamente anonimi, contribuiscono più che validamente a elaborare una sound machine aggressiva, potente e talentuosa – e mai sopra le righe: capito casinisti da sala prove della domenica?! –, che cede qualche punto solo sulle sparute vocals. Una sorta di versione rock degli Zu. Che sono di Roma, guarda un po’.
Ok, finito di sbavare sullo standard qualitativo musicale della capitale, è il caso di passare ai protagonisti. Si dice che al Forte (Prenestino, chiaro) abbiano superato il migliaio di spettatori. Verita? Leggenda? Ma si sa che anche il pubblico, a Roma, è decisamente più istruito, numeroso. E open-minded. Può essere, e i prezzi del Forte sono anche quelli da Africa Equatoriale (a fronte di un più alto tenore di vita). Qui il pubblico non è quello delle migliori occasioni. Ma il Rocknet è un buco, si respira meglio. Eppoi il concerto è di quelli che appunto servono anche a premiare i presenti: pochi, curiosi, appassionati, coraggiosi. Come chi, Andrea Testi/TheLastSwing (e suoi collaboratori), lo ha messo su, questo concerto.
Il set? Durissimo, quasi impietoso. Nessuna concessione all’easy listening, almeno questo ce lo eravamo prefigurato. Il monopolio della sezione ritmica fa dei Sabot una continua eruzione di drumming ultra-articolato e vertiginose rincorse sul manico del basso. Le prime a venire in mente, come già Andrea aveva anticipato, sono le principali bass-driven band degli ultimi 15 anni, come Primus e Ui. Ma, come già detto, la faccenda qui è più semplificata, ossia meno “canzonizzata”, a partire dall’assenza di vocals fino al susseguirsi apparentemente casuale dei patterns ritmici, che mai vanno oltre i 10 secondi. Un cambia e vai frenetico, sicuramente di gran classe, ma di fronte al quale la spia della riserva non tarda troppo ad accendersi. Penso a quelle ragazze non molto carine di cui si dice “beh, simpatica”. Ecco, i Sabot, “bravi, ma…”.
Autore: Roberto Villani