Parlare di Jim O’Rourke, dei suoi lavori solisti, dei gruppi a cui ha preso parte o dei suoi progetti condivisi (da ultimo la collaborazione con Eiko Ishibashi), è sempre materia affascinante, trattandosi di uno dei musicisti più eclettici e determinanti degli ultimi trent’anni (è più), e data la sua vastità enciclopedica, meriterebbe minuzia da esegeta.
Sebbene, poi, il mio ruolo di commentatore “critico” non lo consenta, non posso negare una forte partigianeria, essendo cresciuto da ragazzo con la sua musica e ritenendo alcuni “suoi” dischi, ora piccoli, ora grandi capolavori della musica che hanno caratterizzato non solo il decennio a cavallo tra il 1990 e il 2000, ma l’intera scena musicale degli ultimi settant’anni.
Basti pensare a “Upgrade And Afterlife” (1996) e “Camoufleur” (1998) dei Gastr del Sol (con l’altro “genio” di David Grubbs) o al “solista” e “easy listening” dal sapore (pop)ular “Eureka” (1999).
Innumerevoli anche i suoi meriti nell’aver, nel tempo, operato una fusione tra la sperimentazione volta verso il futuro e la riscoperta di visioni passate, come nelle collaborazioni con i Sonic Youth, ma soprattutto in “Bad Timing” del 1997, con i suoi richiami a John Fahey (autore, a parere di chi scrive, di uno dei più bei lavori discografici di sempre: “Fare Forward Voyagers” del 1973).
Nel nuovo millennio (tra le altre “alte” cose, di questi giorni, la pubblicazione della collaborazione con i Fire! Orchestra nel monumentale “Echoes”), Jim O’Rourke intraprende il sodalizio con Eiko Ishibashi che, abbandonati i “costumi” da cantautrice (dalla compositrice e musicista giapponese con esattezza cristallizzati nell’elegante, curato e poliedrico “Car and Freezer”), si propone in una veste sperimentale che ha portato il “duo” Ishibashi/O’Rourke a esibirsi in una serie di concerti.
Ed è così che il 24 aprile 2023, al Teatro Antonio Ghirelli di Salerno, per circa un’ora, il pubblico è stato immerso in un paesaggio sonoro composto e decomposto, in cui la musicalità di una natura post industriale ha trovato il suo punto di equilibrio con l’elettronica e le elettrificazioni e, al contempo, la sintesi sonora la crasi con i respiri acustici del flauto della Ishibashi, trasportando l’ascoltatore in un’ancestrale foresta biomeccanica; un fiore dealbato e candido ai piedi del palco è simulacro di ciò che è passato, di ciò che si sta manifestando e di ciò che sarà.
Lo spazio dedicato all’improvvisazione è stato assorbito dagli sprofondi compositivi (almeno così è apparso a chi scrive), emergendo più come screziatura di colore o come matrice sì primaria, ma poi codificata in un linguaggio strutturato; al concerto era possibile anche acquistare la registrazione di un live, e l’ascolto postumo dello stesso non solo ha confermato la detta sensazione, ma ha consentito una meditativa immersione che, scremata delle seppur poche “incertezze” che hanno maculato e confermato la realtà dell’esibizione dal vivo da parte dei due musicisti, ne ha esaltato la validità.
Di pregio, il “bis” concesso con Jim O’Rouke dedito all’armonica a bocca, proiettandola in una assonanza novativa che avrebbe attirato l’attenzione anche di Toots Thielemans.
Autore: Marco Sica
Foto di Lucio Carbonelli