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Pearl Jam – Padova, Stadio Euganeo 25.06.18

di Redazione
27 Giugno 2018
in Live Report
Tempo di lettura: 6 minuti
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La cosa veramente incredibile di Eddie Vedder e compagni è che in qualche modo inconsciamente già profetizzavano agli esordi nel 1991 che delle tre anime del grunge anni ’90, Alice in Chains, Nirvana e Pearl Jam appunto, loro sarebbero stati gli unici, venticinque e più anni dopo, a poter gridare di essere ancora vivi, “I’m still Alive”, come Eddie tuona accompagnato da 45.000 persone alla fine del concerto, suonando il loro più famoso e importante inno, Alive, che esattamente per questa ragione è da sempre l’icona sonora del grunge positivo.

E i Pearl Jam venticinque e più anni dopo l’esordio di Ten sono molto più che ancora vivi: sono vivi e vegeti, scalcianti e atletici, dinamici e dinamitardi come non mai. E contemporaneamente, si può dire oggi che sono degli autentici classici del rock, al pari di band che sono i loro idoli come gli Stones o i Who, (che omaggeranno alla fine con Baba O Riley).

Ma andiamo per ordine: alle nove di sera in punto, lo stadio Euganeo di Padova gremito in ogni dove, Eddie e soci escono tra le grida e cominciano con Pendulum (dall’ultimo album Lightning Bolt), che più che il pezzo iniziale è una specie di intro, seguita da una lieve e dolce Low Light. E’ perché la voce di Vedder è ancora in crisi? Nient’affatto, e gli spettatori, impauriti dopo l’annullamento della data di Londra e soprattutto la scaletta breve e le difficoltà vocali della data di Milano all’Idays, lo scoprono subito con Last Exit e Do the Evolution, che mostrano che non solo il leader, ma anche Mike McCready, Jeff Ament e Stone Gossard sono splendidamente in forma.

Si continua con Animal, e poi Eddie si lascia andare a una improvvisata serenata a Padova, città dove racconta di non aver mai suonato fin qui. E’ il momento della prima hit che tutti conoscono, Corduroy, seguita da una troppo veloce e breve e un po’ confusa Given To Fly, poi c’è la prima “chicca”: God’s Dice, dal dimenticato (a ragione) album Binaural, fanalino di coda della produzione PJ dal ’91 ad oggi. 

Si vede subito che i problemi di voce sono alle spalle: non solo la voce è potente, ma Eddie Vedder scherza col pubblico, ci parlerà spesso, anche in italiano con frasi scritte, come in questo caso nel raccontare come è nata e di cosa parla la canzone. O come in Corduroy nel giocare ai soliti coretti con il pubblico. 

E’ la volta poi di Not For You, anch’essa da Vitalogy, che alla fine si rivelerà l’album più saccheggiato della serata. E questa canzone si rivelerà una delle meglio suonate nella serata.

Poi un classicone, Even Flow, su cui Mike si lancia in un incredibile assolo con chitarra rovesciata sulle spalle, seguito da un altro assolo da paura di Stone.

E dopo, un altro intermezzo: Eddie dice “se fossi Ivanka, questa la dedicherei a mio padre e poi gli sputerei in faccia”: tutti sanno a questo punto che sta cominciando Daughter, e anche se non ce n’era bisogno Eddie esplicita l’invettiva contro Trump, concludendo la canzone con un mantra “la verità ti butterà giù a suon di calci”. 

Altra chicca a questo punto: Red Mosquito, dal troppo sottovalutato No Code, e poi una finestra sul presente con Mind Your Manners. Segue un inedito, presente nei bootleg, Down, e poi ancora una chicca, questa stavolta da paura: Spin the Black Circle, veramente rara dal vivo, seguita da una affatto rara Porch, su cui i due chitarristi di nuovo si lanciano in un lunghissimo assolo strumentale. Il concerto è già esploso da un pezzo, Mike e Stone suonano come se non ci fosse un domani, Eddie canta, ride, si diverte, e si sfoga o lascia sfogare i suoi. La prima parte del concerto si chiude qui, con 17 pezzi che sono già quasi quanto la scaletta degli I-Days. Ma tutti hanno la sensazione che il concerto durerà ancora tanto, anche perché le bombe sono ancora tutte da lanciare.

Per il primo bis si parte con Elderly Woman, seguita da Inside Job, l’unica della serata dall’album omonimo del 2006 con cui i PJ tornarono a fare grunge, e poi una quasi assoluta inedita versione live di Once, cattiva e deliziosa.

Questi saranno alla fine i pezzi che si riveleranno i migliori in questo concerto, quelli duri, grunge purissimo, e raramente sentiti in Italia, su cui la band si scatena in assoli tremendi a ritmi pazzeschi.

Tuttavia, il pubblico va in visibilio con le canzoni-inno: e l’aver raggiunto la classicità è provato, per Vedder e soci, anche dal fatto che oramai di queste canzoni i PJ ne hanno da vendere. E’ infatti la volta di Betterman, che infiamma un pubblico già in fiamme, e poi la sempre eterna Black, lunghissima, emozionante, sulla quale alla fine Vedder improvvisa People Have the Power dell’idolo Patty Smith, ma anche una sorprendente You are the Best Thing About Me degli U2 attuali (non è mai corso buon sangue fra le due band, dagli anni ’90 in poi indicate come due modelli opposti di fare rock), che Vedder chiaramente dedica al pubblico.

E ha ragione: un altro segno di classicità ormai raggiunta è che il pubblico per i Pearl Jam è un membro della band. Dopo un intermezzo con la cover Crazy Mary, se ce ne fosse bisogno lo dimostra una volta di più con Rearview Mirror, una canzone che vede 45.000 persone letteralmente perdere la testa, anche perché la base ritmica della band, ovvero Jeff Ament e Matt Cameron, tiene un ritmo da paura, violentissimo, per una esecuzione tra le più intense mai sentite di questo già esplosivo pezzo. Basterebbe davvero questo per un concerto memorabile.

Ma i Pearl Jam tornano per un bis 2 che si apre con Smile, da No Code ancora, per poi chiudersi in maniera assolutamente prevedibile con il loro manifesto, Alive, e poi con la tipica cover di chiusura. Questa volta non è Neil Young con Rockin in the free world, ma è l’altra, Baba O Riley degli Who. La band ne avrebbe ancora, ma il pubblico non ne ha più, stremato dalla fatica di cantare, ballare, scatenarsi. Eddie lascia lo stadio con una calma e lenta Indifference, da Versus, da cui alla fine risultano pescate 5 canzoni, esattamente come per Ten, e Vitalogy. In altre parole, su 25 pezzi non cover i PJ ne suonano 15 dai primi tre, e solo tre dal 2006 in poi. Segno che questo concerto vuole essere un omaggio, un trionfo, un revival di gloria, ma forse anche un punto e a capo, visto che corre per radio il nuovo singolo Can’t Deny Me che stasera è stato trascurato.

Mancano invece all’appello solo tre classici: Jeremy, Nothingman e Wishlist, dopodiché ogni vero fan dei Pearl Jam avrebbe trovato il suo paradiso. Ma nessuno va via insoddisfatto anzi: tutti tornano a casa con la consapevolezza di aver partecipato a un rituale collettivo che al momento per intensità e gioia è improponibile da parte di qualunque band che sia nata dal 1990 in poi. Ecco, la grandezza, l’unicità dei Pearl Jam è tutta in questo: pur essendo nati nel grunge, nel segno della contestazione e della rivolta verso il vecchio rock, Vedder, Ament, Gossard, McCready e Cameron sono stati capaci in realtà di diventare degli evergreen essi stessi. E capaci di donare al pubblico concerti senza tempo, rituali collettivi di un rock che non muore mai, e che anzi come il whisky sembra assaporarsi sempre meglio col passare degli anni.

https://pearljam.com/
https://www.facebook.com/PearlJam/

autore: Francesco Postiglione

SCALETTA

Pendulum
Low Light
Last Exit
Do the Evolution
Animal
Improvvisazione (“Padova, Padova…”)
Corduroy
Given to Fly
Gods’ Dice
Not for You
Even Flow
Daughter
Red Mosquito
Mind Your Manners
Down
Spin the Black Circle
Porch

Bis:
Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town
Inside Job
Once
Better Man
Black
Crazy Mary (cover di Victoria Williams)
Rearviewmirror

Bis 2:
Smile
Alive
Baba O’Riley (cover degli Who)
Indifference

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