Concerto perfetto dal punto di vista tecnico e della resa sonora per uno dei gruppi più importanti degli anni ’90 e chi non sa perché abbandoni questo sito web: ciò che cerca non è qui! Il prevedibile sold-out, ancora una volta pone il problema di decidere se accontentarsi di quello che oggi si può ottenere nella fruizione di questi shows o pianificare e ponderare possibili soluzioni che lascino contente tutte le parti in gioco: musicisti, gestori dei locali, agenzie, tour manager ma soprattutto il pubblico che – mai dimenticarlo – è tra tutti l’elemento principale, l’ago della bilancia, quello che fa la differenza. I Jesus Lizard trasformano il Circolo degli Artisti in un incadescente catino che ribolle di elettricità e sudore. E’ passato un decennio circa dalle ultime gesta invereconde di David Yow che oggi si ripresenta meno docile che mai. Provo ad immaginare i vocalists di qualsiasi altra formazione attuale sbattersi così, figurarsi poi all’età di Yow, e realizzo chiaramente che è un archetipo (chiedetelo anche a Pierpaolo Capovilla). Quando entro è già zuppo di sudore, psichicamente alterato, camicia aperta su uno stomaco rigonfio: è l’alter ego di Harvey Keitel nel “Cattivo Tenente” di A. Ferrara, l’immagine trasmette lo stesso senso di epica disfatta e di putrida gloria. Quando non è sul palco è tra le braccia del pubblico su cui si lancia a peso morto come all’inizio di ‘Nub’.
Se vi state chiedendo come un uomo della sua età possa desiderare questo è perché non lo avete sentito cantare (laddove ‘cantare’ va inteso nel senso più ‘falliano’ del termine). Ogni epoca ha il suo cantore nichilista che forse dovrebbe solo morire sul palco quale esempio di massima coerenza. Gesti offensivi ed esibizione di pudenda accompagnano il cinico declamare sottolineato dai crudeli incastri ritmici. Il resto dell’infame cricca è sempre lì al suo posto; la compostezza formale, quasi accademica di Denison e Sims è una caratteristica dei Jesus Lizard atta a bilanciare decadi di intemperanze yowiane. Riffs impietosi, vortici metallici e mulinelli psichici ci frustano e ci lasciano cadere senza rete nel nostro Es più depravato, lasciandoci provare un piacere masochistico (in senso rock) ma anche voyeuristico, perché noi ‘guardiamo’. Questo è quanto accade intorno. Dentro invece la rabbia e il furore latitano, sono rimaste intrappolate nei dischi e nella memoria e questa è la verità. Il difetto principale delle reunion è che lasciano sempre in bocca un sapore agrodolce. Superata la fase ‘amarcord’ resta un senso di sfasamento temporale, quasi di inadeguatezza; pensi ‘ma che c’entrano oggi i Jesus Lizard con il mondo che mi circonda’? Ascoltando i dischi non si crea il gap tra ‘il qui ed ora’ ed il ‘ciò che è stato’ perchè la fruizione personale, questione intima, affare privato, difficilmente condivisibile, conserva integro il bagaglio emozionale dei ricordi e degli aneddoti mentre ‘into the pit’ devi confrontare velocemente tutto ciò che per te è stato molto significativo con elementi al di fuori di te: cosa sta a significare la diciottenne che salta e canta i Jesus Lizard? E quegli azzimati e compassati signori? Di certo non avevano figli quarantenni da accompagnare al concerto. Questo anche forse è parte dell’’inspiegabile’ del rock, del suo lato ‘esoterico’ che lo rende magico, al di là di sé stessi. ‘Then comes Dudley’ e ‘Bloody Mary’ con ‘Monkey Trick’ i momenti più acclamati dalla sala, ‘Blue Shot’ quello del sottoscritto (che apprezza il lato intimista delle cose).
Autore: A. Giulio Magliulo
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