Il francese Yoann Lemoine, aka Woodkid, ha aspettato quasi 2 anni per portare in tour S16, il suo album uscito nel 2020. Tra le tante attività di questo artista, oltre alla regia per Katy Perry e Lana Del Rey e il modeling 3D, c’è anche la musica: un armonioso miscuglio di elettronica e orchestra per un risultato stupefacente.
Il nuovo disco mostra un lato sicuramente introspettivo, consapevole e intimo, espresso attraverso la potenza inesauribile del CGI. Per questo è necessario che S16 si meriti un tour, e questo Woodkid lo sa.
Il biglietto riporta ancora la data 24 giugno 2021, da allora rimandata per ben 2 volte, tanto che ci si sarebbe potuti aspettare l’imminente cancellazione. Nessuno ci credeva più, eppure eccoci lì, quella sera, in coda lungo via Valtellina aspettando la pelle d’oca. Una lieve pioggerellina illumina i cappotti, utile ad impostare il mood stile Death Stranding.
All’Alcatraz il nero e l’oscurità dominano. Dal parterre si diramano in lungo e in largo tantissime rampe di scale, alcune accessibili, altre no. Un leggero condimento di luci al neon nei pressi del bar e del food court e circa 10 metri di soffitto più che sufficienti per ospitare un live memorabile. Apre il concerto il connazionale Awir Leon: suona per circa 20 minuti portando synth corposi e linee melodiche dal sapore bittersweet. Tuttavia, l’artista risulta un po’ acerbo nell’intrattenimento del pubblico.
Finalmente arriva il momento. Tutto si spegne, comincia a risuonare un timpano elettronico a ritmo lento e un coro distante, si vedono solo le luci rosse disposte attorno a quello che sembra essere un gigantesco schermo. Fa il suo ingresso la piccola orchestra di 8 componenti: 3 strumenti a corda tra violino, viola e contrabbasso, 2 strumenti a fiato, 2 percussioni e una tastiera. Anche loro con delle torce rosse, prendono il loro posto. Pezzo dopo pezzo la canzone si compone, elemento dopo elemento, luce dopo luce. Si attiva lo schermo, mostra una stampante 3D intenta ad assemblare il logo dell’artista.
Compare Woodkid, ha la mano alzata e si staglia sulla folla tramite un piano rialzato. Si presenta con addosso lo stesso outfit, ormai divenuto simbolo di S16, utilizzato per la performance di Pale Yellow al Colors Show. Parte il tema di Iron, pezzo reso famoso grazie al celebre trailer del videogioco Assassin’s Creed Revelations, talmente insito nel pubblico che qualcuno urla “Ezio Auditore!” per la foga. Per tutto il live le luci sono studiate per andare a tempo con la performance, una danza continua di colori.
Si comincia con Enemy, uno dei pezzi più sentiti del disco. Le luci sono molto basse e rivolte tutte su di lui, creano l’atmosfera giusta. Si prosegue con la celebre Pale Yellow, secondo singolo estratto dall’album in cui la tecnologia dietro il live viene sprigionata alla sua ennesima potenza. Dietro al piano rialzato lo schermo trasmette una versione CGI del cantante, inizialmente posizionata di tre quarti, ma non appena si gira mostra la vera natura del corpo umanoide: la testa aperta svela un groviglio di macchinari di ispirazione meliesiana: un automa, forse per dare l’impressione che l’essere umano, a volte, agisce come una macchina senza accorgersene.
Ad ogni intermezzo il focus sul pezzo successivo è chiaro, perché spiegato dall’artista attraverso dediche o conversazioni col pubblico. Introduzione doverosa la doveva avere anche Reactor, una ballad che accosta un coro giapponese al dolce suono di note al pianoforte che salgono e scendono, dando un effetto altalenante.
Segue un brano denso di significato, Brooklyn. Uno spaccato di vita per Woodkid. Ricorda il periodo della sua vita in cui viveva a New York e suonava con l’ukulele in cameretta. Brooklyn, tra quei pezzi, è l’unico uscito sul suo primo EP e l’unico che si porta ad ogni singolo live. A questo punto il pubblico si scalda un’altra volta. È il turno di I Love You, brano tra i più cantati del repertorio di Woodkid. Le luci vanno tutte verso di lui nel ritornello, per poi sprigionarsi in un mix di percussioni che viaggiano su linee parallele ma verso la stessa direzione.
Ci si avvia verso la seconda parte del live. Qua il mood inizia a spostarsi verso un Yoann più intimo, chiuso nella sua crisalide. È Horizons Into Battlegrounds ad aprire questo secondo atto, a detta di molti il punto più profondo dell’album: racconta di battaglie nel nostro inconscio, demoni con cui si combatte costantemente senza l’aiuto di chi si ha attorno. Nonostante la fortissima espressività del pezzo e l’eccezionale performance, manca l’appoggio del pubblico al momento del ritornello, offerto dal suo microfono rivolto verso il parterre. Segue In Your Likeness, costruito in maniera millimetrica nella composizione: il palco si tinge di verde, tema del brano, con luci danzanti attorno agli strumenti. Pone un accento più deciso invece Highway 27, inserendo bassi più decisi e clave a risuonare in sottofondo, intrappolate nel groviglio di percussioni tra una battuta e l’altra.
I brani The Golden Age, Conquest Of Spaces e Minus Sixty One aiutano a spegnere la fiamma del live passando dall’avvincente giro di trombe a un rilassato clarinetto. Ma non è finita qui. Mancano ancora due pezzi, e tutti li stanno aspettando. Quelli più forti, quelli che ti fanno saltare. Lui lo sa. Inizia il basso dinamico di Goliath, primo singolo estratto da S16. Il palco si tinge di giallo. Tutti iniziano a saltare, la sua voce soave spacca il duro beat e offre un contrasto singolare, per poi lasciare spazio ad un drop che lascia senza fiato.
Giunge il gran finale: Run Boy Run, il pezzo che tutti aspettavano, arriva dopo una lunga attesa di circa cinque minuti, riservata ai ringraziamenti. Proprio quando il pubblico iniziava a pensare che non la suonasse, ecco quel lungo rintocco di campane su cui si stagliano clave e percussioni a ritmo incessante, per poi unirsi al dolce e avvincente suono di un’orchestra perfettamente in sintonia. Ma ad un tratto… stop. Manca un ritornello prima di finirla, e tutti lo sanno, anche lui. Il pubblico si libera in un boato sul tema del brano. Lui fa cenno con la mano e, come un direttore d’orchestra, modella la voce del pubblico, che si abbassa pian piano. Da un urlo a un sussurro, e poi ancora un urlo. Spacca tutto il suo “Come on Milano!” per altre quattro battute del tema di Run Boy Run. La platea esplode, le luci esplodono, tutto esplode. Un pezzo degno di concludere un live, appunto, da pelle d’oca.
autore: Riccardo Impagliazzo
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