Labbra spalancate, la lingua che frulla vorticosamente, parole sputate, strozzate o soffocate da suoni, urla aperte, si concedono ad un pubblico sordo o quasi. I tre Old time relijun appaiono smaniosi nei suoni e nelle posture forzate, De Dionysio è inevitabilmente un leader e non fa nulla per nasconderlo, il suo corpo è presente quanto la sua voce, i piedi nudi, le mani rapidissime nel districarsi tra le corde della chitarra e un gesticolare nervoso, si articolano con movenze teatrali a tratti inquietanti, guarda ogni spettatore fisso negli occhi, declama una poetica che sembra godere di una ritrovata paganità. Il corpo, la voce, il suono, come mezzi per tornare alla vita, il concerto come estempora di un progetto ben delineato, ma aperto a repentini cambi d’umore, il volto, le espressioni, i suoni le parole reagiscono inevitabilmente assecondando teatralità o ironia, tragico o puramente reale, espressioni comunque legate al vissuto di ogni componente e che tradiscono le reali intenzioni dei protagonisti, trascinando lo spettatore nei loro rituali. Rituali sudati, concentrati, richiedono allo spettatore uno sforzo nel riconoscere il proprIo corpo come snodo di un sistema “corpocentrico”. E’ innegabile che prestazioni di questo tipo siano vicine a certo teatro, hanno la forza di chiamare a se lo spettatore, di sbloccarlo dalla condizione di sordità e invitarlo in termini violenti a prendere parte alla celebrazione della vita, attraverso una delle sue rappresentazioni. Un concerto vitale che inizia con la frase “sangu mio”, frase tipicamente palermitana, ovvero “sangue mio”, o come dire “figlio mio”, con queste parole citando il suo pubblico De Dionysio ci invita a fare parte del suo corpo, ad essere protesi mobili della sua voce stirata.
Dal punto di vista strettamente musicale l’assenza del sax (causa dogana) non snatura il suono degli Old time relijun accompagnati da un nuovo batterista, il suono è sempre un blues marcio che si accompagna talvolta a venature stile Devo (e non mi riferisco ai suoni ma all’atmosfera di certi momenti di ironia a dir poco caustica), o a richiami “pattoniani”, mi riferisco all’uso della voce rugosa , in alcuni casi fintamente limpida, o in falsetto nei momenti di “rilassata tensione”. Un suono sghembo, anzi storto, che non riesce a seguire percorsi rettilinei neanche nei momenti più banali, il contrabbasso di Aaron Hartman assolutamente sincopato ricorda l’attitudine dei migliori Straycats, producendo una ritmica dinoccolata e frenetica, la batteria rigorosa e funzionale non riesce ad aggiungere l’apporto di una terza forte personalità, ritagliandosi un ruolo forzato, assecondando il suono senza lasciare il segno, almeno per quanta riguarda questo live.
La voce di un novello Demetrio Stratos “incolto”, smaccatamente volgarizzato, recita sputando parole eccellenti, che si distendono o si inerpicano su un punk-blues debitore tanto a John Spencer o a Nick Cave per quanto riguarda la stesura dei testi, quanto alla scuola di gruppi come Dna , Live skull, Rat at rat r , Contorsion.
Sarà proprio una cover dei Contorsion a segnare uno dei momenti alti del live, oltre ad un omaggio alla Sicilia, un’ improvvisazione di De Dionysio al marranzano. Il pubblico apparentemente un po’ distaccato sembra svegliarsi lamentoso a causa della durata del concerto un po’ troppo ridotta, alle ultime parole, letteralmente vomitate da De Dionysio che ringrazia un pubblico anch’esso molto ridotto.
Autore: Federico Lupo