– THE COLOUR, THE SOUND, THE PINK FLOYD!
– LONDON: THE SWINGING CITY
– COLUMBIA SX 6157
– THE COLLECTOR’S CORNER
THE COLOUR, THE SOUND, THE PINK FLOYD!
Quarat’anni fa, un anno dopo la sterzata beatlesiana di Revolver, nel pieno della stagione psichedelica, fu dato alle stampe The piper at the gates of dawn, il primo album in studio di Syd Barrett ed il suo gruppo, quei Pink Floyd capaci, nel volgere di pochi mesi, di conquistare lo scettro del panorama underground, sconvolgendo schemi, creando nuove prospettive e rovesciando sulla musica del tempo uno stile sferzante e carico d’energia distorta.
Disco in grado di innescare un moto perpetuo che ha contribuito ad alimentare idee; variare prospettive. Non una struttura preconcetta, non uno stratagemma commerciale, non l’idea di visibilità immediata, ma una folgorante istantanea di quel preciso momento, di quel preciso slancio visionario. Per tantissimi estimatori, quest’opera, rappresenta l’unico autentico episodio artistico della band.
Un gruppo che in seguito ha cambiato leader e trattato diverse tematiche, ha scandagliato stili ed usato nuove tecnologie, è stato d’esempio e motivo d’ispirazione per tantissime altre bands, ma che non potrà mai disconoscere l’immensa carica adrenalinica raccolta in questo affresco barrettiano dalle tinte accecanti.
LONDON: THE SWINGING CITY
E perché un album come “The piper at the gates of dawn “abbia un senso compiuto, bisogna per forza di cose fare i conti con l’intreccio storico nel quale si andava collocando.
Innanzi tutto, Londra. La città pulsante, il centro del mondo artistico e culturale. La città dove tutto era possibile; il luogo dove scrittori, poeti, pittori e musicisti trovavano il proprio spazio espressivo, la loro perfetta inquadratura delle cose. Dopo anni passati nell’oblio post-bellico, i luoghi d’incontro e di scambio culturale furono attraversati da un arcobaleno multicolore, fatto d’iniziative, esperimenti ed happenings. Tutto era in continuo fermento, la moda imponeva cambiamenti nel proporsi, la modernità sopraggiungeva a folle velocità. Era il momento decisivo della svolta multiculturale. Inoltre è impossibile scindere il significato di quest’album dal consumo e dalla larga diffusione di nuove droghe. Non più l’assopimento e la tranquilla sensazione di beatificazione dovuta agli oppiacei, ma l’eccitazione e lo sballo totale, il trip mentale procurato dall’assunzione di LSD. Questo influì tantissimo sul modo di pensare, e soprattutto di creare nell’ambito musicale. Syd Barrett, robusto consumatore di un qualsivoglia tipo di pasticche e intrugli chimici, non intuì le probabili conseguenze, e volle sperimentare l’inimmaginabile. Ciò lo portò, in breve, alla deriva.
La nascente scena psichedelica prese al balzo le intuizioni suggerite da Beatles e Dylan, respirò la ventata innovativa che arrivava da oltre oceano, dove Andy Warhol fondeva le arti proiettando i suoi film sui Velvet Underground, e dove gli acid tests si moltiplicavano.
Quindi, una collocazione spazio-temporale alchemica, non priva di paradossi e di momenti imbarazzanti, ma dal forte sapore d’inaudito. Era la rivoluzione alternativa dell’estate dell’amore 1967. Il resto fu solo conseguenza.
COLUMBIA SX 6157
Come per le grandi occasioni è buona abitudine stappare bottiglie pregiate, per i primi quarant’anni di The Piper at the gates of dawn scomodiamo dall’archivio la prima stampa in vinile; quella inglese col missaggio monofonico, per cercare di ricreare il sound giusto, senza alterazioni evolutive.
Come per le grandi occasioni è buona abitudine stappare bottiglie pregiate, per i primi quarant’anni di The Piper at the gates of dawn scomodiamo dall’archivio la prima stampa in vinile; quella inglese col missaggio monofonico, per cercare di ricreare il sound giusto, senza alterazioni evolutive.
Side A. Rituale. Togliamo il disco dal vecchio involucro di cartone. La puntina si adagia sul vinile, con naturalezza, senza offendere. Scricchiolio, rumore di fondo, suoni in lontananza, comunicazioni da mondi paralleli: è Astronomy Dominé! Niente è scontato. La forma è liquida, non ci sono riferimenti precisi, tranne gli ululati barrettiani che caratterizzano un pezzo inquietante fatto di spigolature sonore dall’andamento sorprendente. Non c’è né tempo e né motivo per riflettere, incalza Lucifer Sam, con tutta la lucida follia di Barrett, le sue paure, i fantasmi che gli albergano in mente, individuati nella figura di uno strano gatto che proprio non sa spiegare… Lo ripete quattro volte Syd: “That cat’s something I can’t explain” come ritornello di frasi serrate, dal ritmo forsennato, rese acide dall’organo di Rick Wright e dal percussionismo isterico di Nicky Mason. La prima ed unica pausa è l’onirica Mathilda mother, anch’essa lontana da ogni possibile incasellamento, quasi priva della chitarra, basata essenzialmente sulla sezione ritmica e sull’imprescindibile organo wrightiano, che si concede anche un breve ma preciso assolo. Il testo di Syd evoca episodi fanciulleschi; pone l’accento sull’importanza della figura materna, dovuta alla prematura scomparsa del padre, nella quale, poi, si rifugerà nel lungo periodo della crisi esistenziale. Flaming fa tornare le tenebre sul viaggio anfetaminico pinkfloydiano, un concentrato di visioni lisergiche; gufi, unicorni, e strane presenze. Musicalmente incoerente, rumori di vario genere riportano l’immaginario in situazioni adolescenziali vissute nella nativa Cambridge, campanellini, effetti dal sapore bucolico, quasi si riesce a vedere il verde dei prati inglesi, il tutto scandito da un monotono andamento ritmico imposto da Mason; sogno o forse incubo angosciante. Segue il primo pezzo totalmente strumentale dei Floyd, Pow r. toc h., che apre un ampio capitolo nella loro discografia. Syd si limita ad emettere dei suoni selvatici ad inizio track, per lasciare il campo alle sapienti capacità melodiche di Wright, forse l’unico dei quattro ad interessarsi del sound in maniera strettamente compositiva, che a sua volta, in chiusura, dà spazio alla sezione ritmica in quello che molti reputano, forse a ragione, il brano migliore dell’album, se non altro per compiutezza e lavoro d’insieme. A conferma di ciò va detto che, dopo la dipartita di Syd, questo pezzo farà parte di progetti più complessi come la suite The man and the journey. L’unica composizione di Waters chiude la prima facciata: Take up thy stethoscope and walk. Di diverso c’è soprattutto il testo; si passa da riferimenti fantasy ad altri più claustrofobici ed inquietanti: “Il vento è lento, tu sei lento, arriva il freddo, sento che il cervello si squaglia” ! Riflessi di procedimenti mentali che saranno approfonditi nel decennio successivo…
Side B. La chitarra di Syd è perennemente distorta, il suo stile è istintivo, disordinato, fulmineo, siamo in pieno Interstellar overdrive. Non ci sono linee melodiche pulite o assoli mozzafiato, ma c’è l’energia, l’inventiva, l’arte pura. Troppo spontaneo Syd per diventare una rock-star, per sopravvivere nel mondo del businness musicale, troppo ingenuo, forse, per accorgersi delle sue stesse innate capacità. Un pezzo superbo. All’inizio è accattivante, furiosamente undergroud nella sua lunga parte centrale piena di suoni slegati e strumenti che partono per inopinate tangenti, salvo poi ricongiungersi in un incredibile finale, dirompente, frastornante, col riff iniziale che ritorna più pesante, più diabolico, più acido che mai; il flusso sonoro tracima. The Gnome riconduce il tutto sui binari canonici della narrazione barrettiana. Crimble Cromble è il nome di quest’omino immaginario che se ne sta nella sua casina ad oziare, a bere vino ed a godersi la quieta felicità. I riferimenti al futuro destino di Syd sono agghiaccianti. C’è tempo per lasciare ancora spazio alle tastiere di Wright nella successiva Charter 24, che rilascia un feeling decisamente potabile, una song docile e tranquilla, in perfetto rilassamento post trip. Come d’altronde la successiva The scarecrow (già pubblicata nei mesi precedenti come b-side del singolo See Emily play) per la quale i Floyd girarono anche un fallimentare filmato promozionale. Il testo trasmette un senso d’indifferenza a tutto quello che accade intorno, proprio come succede ad uno spaventapasseri in un campo di grano. Gli ultimi solchi di The Piper sono occupati da Bike, ennesimo episodio errante della vicenda barrettiana. L’andamento è cantilenante, strambo, fanciullesco, delizioso. E’ un collage sonoro d’orologi, campane, e pazze risate a chiudere il condensato di pura psichedelica di un album così vario ed eccitante; un groviglio che va pian piano perdendosi in un fatidico vuoto.
La puntina abbandona il vinile, il braccetto torna in sede; ora è il silenzio, ora nulla sarà più com’era prima.
THE COLLECTOR’S CORNER
Oltre alla sopracitata edizione monofonica, The piper at the gates of dawn fu prodotto, contemporaneamente, anche in versione stereo (Columbia SCX 6157). In America fece il suo debutto verso la fine del ’67 (Tower ST 5093), con un diverso assemblaggio dei brani; mancano all’appello Astronomy Dominé, Flaming e Bike, mentre è See Emily play ad aprire la prima facciata. Le apparizioni statunitensi dei Floyd registrarono un fiasco colossale sotto ogni aspetto; le esibizioni dal vivo furono caratterizzate dalle imbambolate performance di Barrett, ormai alle prese con problemi legati al suo stato di salute mentale, e l’album, o per meglio dire, la sua versione storpiata, non entrò neanche nei primi cento in classifica.
Nel 1971 venne pubblicato in Italia con una copertina completamente diversa che ritraeva i Floyd nella nuova formazione con David Gilmour (Columbia 3C 062-042-92). Quell’anno il gruppo si esibì, durante un tour europeo, anche a Brescia ed a Roma. Questi concerti contribuirono in maniera determinante al grande successo riscosso nella nostra penisola.
Non esistono, purtroppo, registrazioni live ufficiali del periodo barrettiano dei Pink Floyd ma, ormai da molti anni, girano tra i collezionisti i tapes relativi alle esibizioni di Copenhagen e Rotterdam datate 1967, dove il gruppo si fa apprezzare per le continue ricerche sonore e per gli insistenti stravolgimenti delle linee di base. Infine, nel 1994, una fedele versione di Astronomy Dominé fu riproposta dal vivo dai Floyd gilmouriani ed inclusa nel cd singolo di Take it back.
Autore: Roberto Paviglianiti
www.pinkfloyd.com